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Cuore di ghiaccio

Dopo aver letto, più di 25 anni fa, Le età di Lulù, pensavo che non avrei mai più preso in mano un romanzo di Almudena Grandes, ma il parere di un’amica ha messo a tacere il mio pregiudizio, per fortuna! E così mi sono trovata immersa in una storia che si dipana tra la guerra di Spagna e i nostri giorni, attraverso le vite di due famiglie unite da legami di parentela ma divise dalle ideologie: da una parte i franchisti, dall’altra i “rossi”. Da una parte chi ha apprezzato e servito Franco, oppure ha taciuto e sopprtato, o si è trovato a suo agio e si è arricchito, dall’altra chi ha combattuto, perso, è stato imprigionato, fucilato, chi ha vissuto in esilio o magari ci è addirittura nato:

L’insopportabile era essere figlio di esuli spagnoli, essere nati, cresciuti, essere diventati grandi in un esilio come il loro, denso, spesso, concentrato, stuzzicato di continuo e continuamente torturato dalla vicinanza, la consapevolezza di quella frontiera così vicina e allo stesso tempo così irraggiungibile, come il vaso di caramelle colorate piazzato un centimetro, solo un centimetro, sopra il punto a cui arrivano le dita tese del bambino affamato. Era orribile l’esilio.

Il protagonista è Àlvaro, un professore di fisica all’incirca nostro coetaneo, che della guerra ha solo sentito parlare. Intorno a lui la sua famiglia agiata, perbene, unita al di là dei soliti piccoli screzi tra fratelli. L’incontro con una donna apparentemente estranea ma in realtà strettamente legata a lui dalle vicende del passato sconvolge la sua routine. Il racconto alterna il presente e il passato e ricostruisce a poco a poco un pezzo di storia sconvolgente, che più volte mi ha fatto pensare alla guerra che ci sta lambendo adesso, perchè in fondo tutte le guerre si somigliano.

Nel porto di Alicante, dov’era svanita la speranza, gli spari risuonavano, giorno dopo giorno, corpo dopo corpo, a volte vicinissimi gli uni agli altri, a volte distanti ore lunghe un’eternità, e lui guardava il mare, l’acqua immobile, vuota, disertata dalle navi che non sarebbero più arrivate, una salvezza che ormai non osava neanche più aspettare chi non avrebbe mai avuto l’occasione di assaporare l’amarezza dell’esilio. Erano gli ultimi fedeli, traditi da tutti, carne da fucilazione, ambito bottino di guerra dei vincitori.
Nel porto di Alicante si erano raccolti in molte migliaia, ma nessuno aveva voglia di parlare. Nessuno aveva più il coraggio di ripetere che no, no, non ci consegneranno, non ci lasceranno qui, non possono farci una cosa del genere, verranno a prenderci, dovranno mandarci delle navi, Blum, i francesi e anche gli inglesi, nell’ora della verità, non possono lasciarci qui, le democrazie, gli europei non possono farci una cosa del genere…

Personalmente avrei dato qualche sforbiciata agli incontri amorosi e a qualche ripetizione, ma penso che questi siano aspetti che caratterizzano la Grandes, alla quale comunque va il merito di aver scritto 1000 pagine che mi hanno catturata senza mai annoiarmi e hanno colmato molte mie lacune in ambito storico.

Romanzo non proponibile al GdL per la sua lunghezza, ma che secondo me merita di essere letto.

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Ennio

Sono andata a vedere Ennio e, se non avete tempo di leggere tutta la mia recensione, leggete solo il mio consiglio: andate a vederlo.

Sono uscita contenta, commossa, arricchita e piena di ammirazione per quest’uomo dalla mente geniale, impareggiabilmente lucido, ma soprattutto privo della presunzione e della sregolatezza che spesso accompagnano il genio. Metodico e preciso nel suo lavoro come un bravo artigiano, ha incassato le sconfitte con equilibrio e dignità. Temprato da un inizio in salita, è stato spinto da una determinazione granitica che lo ha portato a raggiungere senza scorciatoie i traguardi che si era prefissato.

Certo, questa è l’immagine che ne dà Tornatore, ma le doti caratteriali di Morricone traspaiono dal suo modo di scrivere la musica, di allenarsi a dirigere e soprattutto dalla sua capacità di commuoversi, vista nei filmati che lo immortalano durante la consegna del tanto sospirato Oscar e ascoltata nelle parole di chi lo ha conosciuto, come il regista di Mission, che durante la lavorazione del film lo vide piangere per il destino degli indios e dei gesuiti.

Il film è un viaggio che parte dalle canzonette di Gianni Morandi e di Edoardo Vianello, di cui Morricone faceva gli arrangiamenti, per arrivare alle opere colossali della sua maturità, passando attraverso il racconto di come sono nate alcune delle sue colonne sonore più famose, che sono intrecci complicatissimi di melodie all’interno delle quali ogni strumento ha un significato ben preciso.

Io amo la lettura e il cinema perché mi piace che mi si raccontino delle storie. Per lo stesso motivo mi piacciono le canzoni e l’opera, ma non so apprezzare pienamente la musica di per sé, che siano quartetti d’archi o jazz, forse proprio perché non hanno parole e quindi non riescono quasi mai a narrarmi niente. La musica di Morricone invece è per me un racconto senza parole che riesce ad arrivare al mio cuore e a strapparmi qualche lacrima.

Ennio è un film bellissimo: ho pianto tanto!

Stalingrado

Erano anni che non mi capitava di leggere un romanzo così coinvolgente ed emozionante. Vasilij Grossman racconta la guerra descrivendo soprattutto come questa entri nella vita delle persone, sia dei soldati che soprattutto dei civili. In definitiva si tratta della storia di un popolo, quello sovietico durante i primi anni della seconda guerra mondiale, scritta prendendo alcuni (tanti) personaggi come esempi con i loro pregi e le loro debolezze e meschinità. La tesi di Grossman è che a Stalingrado a combattere, resistere, e in molti casi morire sono stati i cittadini sovietici, molto più che la direzione politica e militare. Era un popolo che combatteva per difendere la propria terra molto più che per il regime di Stalin.

Un libro molto impegnativo

Non molto tempo fa ho terminato la lettura di “Zero zero zero” di Roberto Saviano (il libro era stato proposto da uno dei banditi, G.).

Tra saggio, inchiesta giornalistica, personale diario, Saviano si immerge nella storia e nelle strade che portano la cocaina in giro per il mondo.

Tra ritratti di narcotrafficanti, gruppi armati che usano la violenza per imporre la propria visione della società, uomini d’affari che si occupano solo di far arrivare la cocaina dal produttore al consumatore e riflessioni sui meccanismi che tutto questo provoca, l’autore in maniera seria, documentata e partecipe mi ha fatto arrivare a due conclusioni.

  1. Non credo che andrò mai in visita nei paesi del Centroamerica. Luoghi ricchi di storia certo e di brave persone sicuramente, ma anche incredibilmente capaci di tollerare che gruppi armati e addestrati in maniera chirurgicamente violenta, massacrino intere comunità. Magari oggi non è più così, anche se la scomparsa dei 43 studenti in Messico nel 2014 non lascia grandi speranze in merito alla capacità dei politici e delle forze dell’ordine di eliminare corruziozione e omertà.
  2. Saviano descrive il mondo come fatto di diversi piani. Quello in cui viviamo fatto di quotidianità, la sveglia che suona al mattino, il lavoro, la famiglia etc. e quello in cui il narcotraffico muove soldi a palate e tonnellate di droga. I primi ad un certo punto hanno salvato le banche dalla crisi e le seconde riempiono container, stomaci di uomini e animali che portano la bianca sostanza dovunque.

Quindi sì, un libro impegnativo, ma necessario per capire come funzionano le cose.

In alcuni momenti si sente da parte dell’autore l’affanosa necessità di raccontare e raccontare e ci si perde nelle storie di uomini capaci delle peggiori azioni per mantenere potere e campo d’azione. Davvero non abbiamo la percezione di queste cose, ma dopo la lettura di questo libro guardo i container allo scalo ferroviario di Forlanini con un pensiero diverso…

Grazie a G. per averne parlato e grazie a Roberto Saviano per l’impegno.

A volte serve una piccola spinta

A volte serve una piccola spinta per riprendere fiducia e proseguire la lettura di un libro, che ci sembra impossibile da terminare.

A me è successo con “La cognizione del dolore” di Carlo Emilio Gadda.

No, proprio non riuscivo ad andare avanti dopo le prime 20 pagine: la mia testa era come un grande punto interrogativo e non riuscivo a capire cosa stavo leggendo.

Così ho chiesto alla banda un piccolo aiuto ed MG mi ha detto che suo marito l’aveva letto e che gli avrebbe chiesto un consiglio.

Ho ricevuto in seguito una pagina scritta in word, dove R, marito di MG, mi spiegava cosa c’era di fatto dietro al libro di Gadda e cosa l’autore voleva dire. Oh, non ci crederete, non solo ho terminato il libro, mi è anche piaciuto!

Certo, un pò strano il linguaggio e non semplice l’edizione che ho utilizzato (Einaudi di qualche tempo fa, piena di note, introduzione, appendice, postfazione etc. che ho deciso di saltare per non interrompere sempre la lettura), però lo consiglio a chi volesse immergersi in un’atmosfera e in una storia poi non così lontane dalla nostra percezione.

Intanto grazie ad R e ad MG per la piccola spinta e il tempo dedicatomi!

Buone letture a tutti!

Incontro del 28 aprile 2022

La Banda del Book si è riunita il 28 aprile in biblioteca per commentare Il ristorante dell’amore ritrovato di Ito Ogawa e Lezioni di piano di Jane Campion e Kate Pullinger. Incredibile come per questo incontro abbiamo due protagoniste che non hanno la voce e scrivono su un blocco.
Ecco il report condiviso. Buona lettura!

Il ristorante dell’amore ritrovato di Ito Ogawa
Commento della Bandita Vino Bianco:
Il libro mi è piaciuto e l’ho trovato una lettura gradevole.
Non trovo però plausibile la reazione della protagonista, all’inizio del romanzo, quando il suo compagno la lascia senza una spiegazione svuotando l’appartamento in cui hanno vissuto. Capisco andarsene ma una denuncia? Una sana “incazzatura”?
Sembra più un espediente narrativo che l’autrice utilizza per arrivare a ciò che le interessa davvero: parlare di cucina. Il ristorante “il Lumachino” è davvero il luogo in cui si incontrano i personaggi più interessanti. Anche gli animali dal maiale Hermès al coniglietto inappetente sono personaggi ben descritti. Mi sarebbe piaciuto vedere approfonditi sia il personaggio della madre che Kuma-San.

Commento della Bandita Golosa di patatine:
Leggere Il ristorante dell’amore ritrovato per me è stato tempo perso. L’ho letto perché dovevo ma:
1. non amo gli autori giapponesi (neanche quelli bravi e veri).
2. molte parti sono ai limiti dell’assurdo: il concepimento di Ringo, il personaggio di Cementino (il compagno della madre), il maiale domestico Hermès, il banchetto al pranzo di nozze.
3. amo e rispetto gli animali e la macellazione della povera Hermès è raccapricciante. Che poi… Pagine e pagine di dettagli sulla macellazione ma nessun approfondimento su cosa prova Ringo o la madre (!). Bah.
4. finisce con un cliché così prevedibile che non volevo crederci.

Commento della Bandita Teacher:
Nonostante l’inizio piuttosto coinvolgente che porta subito a simpatizzare e solidarizzare con la protagonista, ho trovato il resto del romanzo abbastanza scontato e prevedibile in alcune parti, mentre il finale mi è sembrato “rimediato” nel tentativo di dargli un senso e strappare un po’ di commozione.
Ringo, la protagonista, è un bel personaggio, forte e resiliente, che affronta le sventure della vita con coraggio e determinazione. Il tema del cibo e della sua preparazione, nonché della sua consumazione come cura a mali interiori, sebbene non lo senta mio, può essere affascinante. Tuttavia, queste premesse non vengono sostenute né dalla narrazione, piuttosto banale e con scelte lessicali che non condivido (forse un problema di traduzione?), né dagli episodi raccontati, alcuni dei quali piuttosto forzati, altri ridicoli e altri davvero di cattivo gusto. Ne cito giusto alcuni: Ringo che parla con il cibo e gli chiede come preferisce essere cucinato e il cibo ovviamente risponde; il maiale che mangia solo pane a lievitazione naturale e possibilmente con frutta secca nell’impasto; la trovata dell’inseminazione tramite pistola ad acqua; e che dire del pelo pubico, arricciato e trovato nel tramezzino! Ecco, qui ho avuto una sensazione di forte disgusto e la grande tentazione di abbandonare. Ultimo ma non ultimo la macellazione del povero Hermès! Non solo mi è sembrata una grande contraddizione aver costantemente messo in primo piano l’amore per gli animali, vedi anche le cure verso il coniglietto inappetente, e poi chiedere a Hermès un sacrificio e una fine che di certo non meritava. La crudeltà e la gratuità di questa parte e la descrizione così dettagliata dell’uccisione del maiale sminuiscono alcuni spunti e immagini interessanti come per esempio la personificazione del maiale sia attraverso la similitudine con il condannato innocente che avanza verso il patibolo sia attraverso il riconoscergli caratteristiche e sentimenti umani.

Hermès aveva capito tutto. Possedeva un intuito davvero formidabile. Sapeva chiaramente del suo destino, della grave malattia di mia madre, della nostra discordia e persino dei sentimenti complessi, impossibili da esprimere a parole che abitavano il mio cuore.

Pagg. 156/157

Ho già accennato a come, quello che forse è il fulcro del romanzo e cioè il cibo e la sua celebrazione, non abbiano toccato le mie corde. Tutte le pagine dedicate alla descrizione delle sue ricette e alla loro realizzazione non hanno, purtroppo, stuzzicato i miei sensi né suscitato altre emozioni, trovandole a tratti abbastanza noiose.
Insomma, una buona idea, anche se non originalissima (vedi i riuscitissimi Il pranzo di Babette e Chocolat), ma una realizzazione piena di falle!

Commento della Bandita Sfogliatella:
Il romanzo rientra nel filone “culinario” che ha imperversato nelle librerie e cinema. Inizialmente si legge, poi diventa monotono ed i personaggi e le situazioni sono poco credibili. Il risultato è che non si riesce a trovare una chiave di lettura. Non aiuta il fatto che la cucina orientale mi piace poco o per niente. Ho comunque portato a termine la lettura, proprio perché volevo capire dove l’autrice voleva andare a parare e ho trovato conferma nel mio parere.
Tuttavia voglio prendermi la libertà di dire che il fatto di far parte di un Gdl, mi ha sempre spinta a prendere in carico tutti i testi proposti ed almeno cominciare a leggerli, ovviamente con la sacrosanta libertà di portarli a termine. Infatti non mi sembrava corretto liquidare le proposte affermando, a priori, “non mi interessa”. Nel Gruppo, ho letto gialli, fantascienza e altro (non le mie cup of tea) con la curiosità onnivora del lettore qualunque. Altrimenti si fa parte di un Gruppo di lettura dedicato.

Commento della Bandita Lemonsoda:
La lettura di questo libro non mi ha lasciato indifferente e non riesco a liquidarlo con un secco giudizio -piaciuto/non piaciuto-. È stata una lettura comunque suggestiva che ogni 20/30 pagine, mi ha suscitato differenti e contrastanti stati d’animo, sentimenti, sensazioni e quindi opinioni.
Inizialmente il libro, crea presupposti e aspettative che la successiva lettura non soddisfa pienamente. Con una narrazione semplice non sempre coinvolgente, l’autrice racconta le storie degli avventori di un improbabile ristorante, che ho trovato poco intriganti, banali insomma deludenti. Sono stata turbata dalla sofferenza che, le vicende dello sfidanzamento e il poco amorevole rapporto con la madre della protagonista, mi hanno trasmesso. Ho vissuto con dolore le pagine della sua mancata occasione di poter esaudire l’ultimo desiderio della mamma malata: sentire per l’ultima volta la voce di sua figlia, avrebbe sciolto il gelo che le ha allontanate nella vita. Ringo resiste ad abbandonarsi, ancora una volta, forse una volta di troppo. Straziante, come anche la decisione di uccidere Hermes che poteva diventare per lei una consolante compagnia, dopo l’abbandono dai suoi affetti. Mi hanno infastidito e irritato alcune descrizioni, per citarne alcune: quella della provocazione del concorrente invidioso e la scelta di pensare alla pistola ad acqua per -svilire?- il momento del concepimento di Ringo (forse questo il momento più basso) ma anche altre.
Ho valutato come dimenticanza e segno di superficialità l’aver abbandonato all’oblio il fidanzato della mamma dopo il ritorno della sua vecchia fiamma. Il personaggio non è un granchè, ad un certo punto sparisce ma forse gli si poteva concedere il riscatto di un’uscita dignitosa.
Ho vissuto come una forzatura il matrimonio lampo e lo sfracellamento del piccione contro il vetro, come spunto di incoraggiamento per Ringo di tornare a parlare.
Alcune pagine non sono riuscita a leggerle proprio. Prime fra tutte quelle dell’uccisione dettagliata di Hermes, verso il quale, prima l’autrice con intento sadico, ha condotto il lettore ad affezionarsi, quindi la particolareggiata preparazione e stoccaggio delle sue carni. Noiosette le descrizioni dei menù personalizzati, nonostante una iniziale meticolosa lettura di ogni traduzione, non mi hanno solleticato particolare sensorialità e trasporto complice anche la mia totale ignoranza verso la cucina Giappo e mettiamoci anche una distanza fisica e di immedesimazione nella loro cultura che ahimè non ho mai avuto passione di colmare nonostante gli sforzi. Quindi dopo la prima ricetta le altre le ho saltate, non riconoscendo lì il vero valore del libro e del suo premio!
Il desiderio e la curiosità invece che mi hanno portato agilmente a terminare il libro sono state sostenute e mantenute vive per tutto il racconto grazie alla positività e fascino di alcuni personaggi.
Ringo la protagonista l’ho apprezzata senza riserve, per la sua capacità di vivere con dignità e misura (a costo della sua stessa voce!) le avversità e gli ostacoli della vita. Tratteggiata come un personaggio pacifico, delicato e sensibile oggi diciamo resiliente, pronta ad empatizzare con ogni forma di vita in cui si cimenta, attenta osservatrice di ogni aspetto della realtà che la circonda incontrando bellezza ovunque. Kuma-San… l’angelo custode in carne e ossa che tutti desideriamo incontrare nel nostro inferno: una presenza senza invadenza, che offre senza chiedere in cambio, che con una spina nel cuore dispensa generosità e quindi affetto; sa il tuo bisogno, ha quello che cerchi, fa ciò che desideri, ascolta il tuo silenzio. A lui, senza volerlo, ho dato il volto di un giovane vecchio falegname partigiano.

Lezioni di piano di Jane Campion e Kate Pullinger
Commento della Bandita Golosa di patatine:
Se il film Lezioni di piano ci mostra i personaggi da fuori, il libro ce li propone da dentro dando voce ai silenzi di Ada, ai turbamenti di Baines e alla rabbia di Stewart.
Sembra un romanzo del secolo scorso, sia per l’ambientazione sia per il modo in cui tratta gli argomenti, con questa scrittura che ho trovato molto evocativa.
È la storia di una donna che non scende a compromessi, non l’ha mai fatto. Ha una volontà di ferro fin da quando aveva 6 anni e ha deciso di non parlare più. Scopre e ci permette di scoprire il linguaggio della musica e il linguaggio dei corpi. 
Ricordo il film ma sono passati anni e dovrei rivederlo per capire quanto manca nel film rispetto al libro. Sicuramente leggendo ho rivisto alcune scene ma ho anche scoperto dettagli che avevo rimosso o dimenticato. O forse non c’erano? Per esempio, il passato di Ada era nel film? I personaggi hanno acquistato uno spessore che dal film non era emerso.
In questo caso prima è nato il film e poi il libro. Difficile definire se è meglio il film o il libro. Il film è meno completo per certi aspetti ma più completo per altri. Il libro è più profondo ma… manca la musica!

Commento della Bandita Sfogliatella:
Non leggevo un romanzo così bello da tempo. Una scrittura elegante, ritmo e atmosfera da narrativa romantica, tanto da ricordare le sorelle Bronte. Peccato per chi ha pensato di aver già visto il film e quindi ha snobbato il testo scritto, perché il romanzo non è la sceneggiatura del film. Il romanzo è successivo al film e pur narrando le stesse vicende, tocca l’immaginazione, coinvolgendo tutti i sensi, non solo la vista e l’udito. Certo, film e romanzo sono due punti di vista, ma il romanzo dice di più riguardo ai protagonisti.
Il protagonista principale è il piano, il titolo originale è THE PIANO. Le lezioni di piano sono scambio di sofferenza reciproca perché Ada McGrath ha imparato così a gestire i rapporti con il genere maschile. Il padre distrutto e distratto dal dolore per la perdita della moglie, intima il silenzio alla piccola Ada durante un pranzo in famiglia e lei umiliata ed incapace di accettare una tale mancanza di amore, gli opporrà il silenzio per sempre.
Le lezioni di piano sono anche lezioni di crudeltà del suo maestro e seduttore Delwar, che vede in Ada un grande talento naturale del quale è invidioso e decide di sedurla e abbandonarla.
Alistair, il marito al quale Ada viene sposata dal padre, in Nuova Zelanda, è un uomo formale, inflessibile, paragonabile a Dio, pensa Ada. Nonostante le implorazioni di Ada, decide di abbandonare il piano sulla spiaggia e quindi il primo gesto nei confronti della sposa è un atto di crudeltà. Anche con George le lezioni di piano sono una reciproca sofferenza iniziale, ma George ha sofferto in passato e quando il gioco si fa insopportabile decide di regalarle il piano. Ada adesso capisce il senso di gratuità dell’amore e corre da George. La vendetta di Alistair che le mozza un dito è crudele, ma inutile. Ora Ada ha un ultimo duello, con il piano, il simbolo della crudeltà, il suo amante abbandonato, che tenta di portarla con sé in fondo al mare, ma Ada ha capito che vuole vivere, la sua relazione con George è libera, reciproca. 
Due volte sentiamo la voce di Ada: nell’incipit e alla fine, nel prologo. Qui Ada ci dice che ha ripreso a parlare e suona il piano con una protesi, poi aggiunge che a volte ripensa al piano in fondo dell’oceano, dove giace anche un po’ di lei.

Ci vediamo il 26 maggio, sempre in biblioteca, per discutere e analizzare:
– Stirpe e vergogna di Michela Marzano
– Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini di Fabrizio Gatti

Buone letture a tutti!

Senior Service

Ho teminato da poco Senior Service di Carlo Feltrinelli.
Libro molto interessante, a mio giudizio, scritto dal figlio di Gian Giacomo Feltrinelli, fondatore dell’omonima casa editrice negli anni ’50 a Milano.

Si racconta una vita, un’epoca, una famiglia e la morte di un padre, con senso della misura, con curiosità e con domande che restano spesso senza risposta.

La cosa che mi ha colpito di più è la serie di incontri tra Feltrinelli e personalità importanti del suo tempo (es. Fidel Castro) e la grande intuizione di un editore che pubblica romanzi come il Dottor Zivago e Il Gattopardo. Tutto è corredato dalle lettere che l’editore scambia con i suoi interlocutori e dalle ricerche di Carlo Feltrinelli, il quale racconta con sincerità (almeno a mio parere) gli incontri con un padre poco presente e che viene ritrovato morto nella nebbia che circonda un traliccio nella campagna di Segrate.
Lo consiglio a chi volesse approfondire sia la storia di una casa editrice e del suo controverso fondatore sia a chi volesse scoprire come è nata la pubblicazione del Dottor Zivago.

Se poi interessa anche il periodo storico (anni 50-70) ci sono degli spunti interessanti.
Buona lettura

Incontro del 31 marzo 2022

La Banda del Book si è riunita il 31 marzo in biblioteca per commentare Solaris di Stanisław Lem e Quando le montagne cantano di Phan Quế Mai Nguyễn.
Eravamo in 13!
Anche in questa occasione abbiamo optato per l’invio del contributo via email e quel che segue è il report condiviso.

Solaris di Stanisław Lem
Commento della Bandita Teacher:
Ho trovato il romanzo difficile e solo grazie alla discussione e al confronto con gli altri banditi ho potuto analizzare più a fondo temi e messaggi e quindi apprezzare, almeno in parte, il vasto simbolismo non sempre evidente. Questo non è avvenuto per la narrazione che per me rimane molto complessa probabilmente a causa del prevalere di tematiche scientifiche, per me una montagna davvero invalicabile anche nelle sue forme più elementari. A questo aggiungiamo il genere fantascientifico, “vana zavorra”, per di più filosofica, e il mix è completo!!
Detto ciò, ne ammetto lo spessore tanto più che mi ritrovo spesso a ragionare su quanto Lem, tra le righe della fantascienza, ci parli, invece, non di esplorazioni di altri e nuovi mondi ma di tentativi di capire ciò che abbiamo dentro di noi, nella nostra mente, le nostre emozioni, le nostre ansie e le nostre paure.
L’autore ci mette, inoltre, davanti al tema dell’incapacità di comunicare. L’oceano comunica ma gli scienziati non lo capiscono perché ogni tentativo di decodifica è influenzato da un pensiero umano e geocentrico: i longhi vengono interpretati come maree, alcuni mimoidi appaiono come membra, altre come organi sensoriali. Nulla di tutto ciò è come appare e il mistero rimane: i processi che si svolgono nell’oceano sono pensieri? E se davvero è un cervello pensante, allora ha una coscienza? Non posso fare a meno di pensare che gli scienziati siamo tutti noi e l’errore sta nella nostra arroganza di pensare in termini autoreferenziali e non sforzarsi di capire altri codici o le ragioni dell’altro.
La storia tra Kelvin e Harey appare come una doppia metafora: la speranza, una seconda opportunità per riavere e amare nuovamente, per rimediare al senso di colpa per averla indotta al suicidio; il fallimento che si ripresenta e la cancellazione definitiva di Harey ne è la dimostrazione.
Ho anche visto la riduzione cinematografica del regista russo Andrej Tarkovskij, peraltro non apprezzata da Lem, forse perché troppo personalizzata. Per esempio, il film inizia e finisce con due scene, la prima anche abbastanza lunga, ambientate sulla terra, in cui il protagonista è con il padre nella sua dacia e traspare un disagio forse riconducibile al dispiacere di lasciare il suo mondo, all’incertezza di ciò che lo aspetta e del ritorno. Mi hanno colpito alcune ambientazioni anomale per una stazione spaziale come, per esempio, la presenza di una sala da pranzo con lampadario a gocce di cristallo, quadri di Bruegel per non parlare di fiori freschi e abiti tutt’altro che spaziali. È evidente che anche Tarkovskij, come Lem, utilizza la fantascienza come mezzo per parlare d’altro. E le domande che rimangono insolute sono davvero troppe.

Commento della Bandita Rossa:
Ho accolto con molto piacere la proposta di leggere un libro di fantascienza perché amo questo genere, che considero sottovalutato dalla stragrande maggioranza dei lettori.
Raramente la fantascienza, soprattutto quella libresca, è soltanto un gioco di finzione con le astronavi e gli alieni: molto più spesso è metafora della realtà e Solaris non fa eccezione.
È un romanzo sui rapporti, sull’incontro, sulla relazione con gli altri e con se stessi, con le proprie paure, i propri sensi di colpa, i propri rimpianti.
Il pianeta non è soltanto un corpo celeste ma è un’entità che sembra cercare il contatto, come lo cercano gli umani che si trovano sulla sua superficie. Il rapporto con l’oceano, che è considerato un individuo, l’unico abitante del pianeta, è destinato a generare una profonda crisi negli scienziati. Il motivo è spiegato molto bene da Snaut:

“La verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi, ma di specchi. Degli altri mondi non sappiamo che farcene, quello che abbiamo ci basta e ci avanza. In alcuni pianeti speriamo di trovarne il modello ideale e civiltà migliori della nostra, in altri speriamo di scoprire l’immagine del nostro passato primigenio. Tuttavia, di quel mondo, c’è anche qualcosa che rifiutiamo, da cui ci difendiamo… Il fatto è che non arriviamo dalla Terra come campioni di virtù o come monumenti dell’eroismo umano: ci portiamo dietro esattamente quello che siamo e quando l’altra parte ci svela la nostra verità – il lato che ne teniamo nascosto – non riusciamo ad accettarla!”

Credo che questa considerazione sia spesso vera anche nei rapporti umani.
A fare da cornice a questo viaggio nell’animo umano c’è un pianeta straordinario, con albe e tramonti rosei e azzurri, quasi completamente coperto da un immenso oceano gelatinoso, sempre in movimento, che crea costruzioni fantastiche dalla sua spuma. Mi sono procurata la trasposizione cinematografica di Steven Soderbergh del 2002 proprio per vedere com’era stato ricostruito questo straordinario ambiente ma sono rimasta molto delusa: si svolge tutto all’interno della stazione spaziale, quindi… consiglio il libro e sconsiglio il film!

Commento della Bandita Urbana:
Considerato un classico della fantascienza Solaris è in effetti un libro affascinante anche per me che non amo il genere. Il protagonista è il pianeta Solaris, difficile da descrivere, anche per Lem. È infatti una specie di oceano intelligente che – a me sembra – cerca disperatamente di comunicare con gli astronauti che sono venuti dalla terra per cercare di conoscerlo. Lo fa dando corpo a creature che sono la materializzazione della mente degli astronauti, dei loro sogni, dei loro desideri. Solaris, la cui turbolenta apparenza incute paura, in realtà regala agli uomini che lo visitano dei compagni di vita. Perché lo fa? Forse perché è l’unico mezzo che ha a disposizione per creare un contatto. Ma gli umani non capiscono. Non riescono a conoscere usando le emozioni.  E i tentativi di Solaris rimangono incompresi, anzi peggio, sono vissuti come delle minacce alla razionalità degli scienziati che dovrebbero studiare il pianeta, come tentativi di farli uscire di senno. Non sempre la lettura è piacevole, ci sono lunghe digressioni sulla storia di Solaris tratta dai tomi contenuti nella biblioteca che annoiano un po’. Ma il senso di mistero che aleggia dall’inizio alla fine del libro, la relazione tra Kelvin e Harey così dolce e impossibile, le descrizioni dei panorami di Solaris superano di gran lunga le pagine noiose e lasciano un ricordo indimenticabile.

Commento della Bandita Golosa di patatine:
Bah. Devo ancora trovare il libro di fantascienza che fa per me, che mi piaccia, che mi prenda. Ho provato con Solaris ma non c’è stata sintonia… neanche con questo.
Ho trovato la storia in sé traballante, quasi incompleta; l’amore tra Chris Kelvin e Harey mi è sembrato un escamotage per far succedere qualcosa (per far contente le lettrici? guarda caso nel film del 2022 l’interprete è un bello del cinema); le descrizioni dei dettagli del pianeta eccessivamente lunghe e lente.
A questo link ho trovato questa frase: “C’è un parallelismo fra i personaggi, ciascuno dei quali incarna l’arroganza della scienza arroccata in uno sterile razionalismo (Sartorius), l’ansia carica di dubbi dello scetticismo, cui non è estranea la compassione (Snaut), l’apertura al mistero (Kelvin).” Un’analisi interessante. Mi fa pensare che in questo libro ci sia molto di più di quanto io possa arrivare a capire.
Addendum: Dopo aver letto con attenzione i commenti delle 3 bandite qui sopra, mi trovo nella stessa situazione della Bandita Teacher quindi ringrazio tutte per avermi fatto scoprire nuovi livelli di lettura e il messaggio del libro. Questo dimostra che è proprio grazie alla relazione con l’altro che arriviamo a conoscere noi stessi e il mondo intorno a noi. Che poi non è anche una delle tesi del libro?

Commento della Bandita Sfogliatella:
Sebbene ne mantenga la struttura (astronave, viaggio interstellare, pianeta alieno, mistero) questo romanzo non può essere definito “fantascienza”, nel senso classico. È fantastico nelle descrizioni dei due soli, dei tramonti e dell’oceano pensante, ma potrebbe svolgersi in un contesto qualsiasi di solitudine, sul nostro pianeta.
È un romanzo che parla di inconscio, di emozioni rimosse, di sofferenza occultata, riemergente da questo mare magnum che replica le emozioni più profonde come una stampante 3D. Il personaggio di Harey, la moglie di Chris, è di una tristezza infinita, un loop di infelicità, forse il suo suicidio reiterato anche su Solaris esprime un desiderio inconscio, inconfessabile di Chris di sbarazzarsi di lei? 
È un romanzo affascinante, intrigante, appesantito da pagine di pseudo scienza datate e indigeribili. Basta saltarle e godere ciò che resta. 

Legati al romanzo, i Banditi segnalano:
MyMovies sul film di Tarkovskij del 1971.
MyMovies sul film di Soderbergh del 2002.
Recensione al film Solaris di Tarkovskij.

Quando le montagne cantano di Phan Quế Mai Nguyễn
Commento della Bandita Golosa di Patatine:
Adoro le storie di resilienza e mi sono bastate poche righe per capire che questo romanzo sarebbe stato quello giusto per me. Phan Quế Mai Nguyễn racconta le vicende che nei decenni hanno colpito il Vietnam martoriato da nemici stranieri e da guerre intestine. E lo fa con 3 generazioni di donne coraggiose, coriacee, aggrappate alla vita per amore dei figli e della famiglia. Donne che, tra le altre cose, amano i libri: “Mi ero convinta che se le persone avessero incominciato a leggere e a scoprire le culture degli altri popoli, non ci sarebbero più state guerre.” Ecco la resilienza femminile che ultimamente mi appassiona. Sarà il periodo? Forse. Ma sarà anche che ho bisogno di ispirazione, condivisione e storie di donne che ce la fanno nonostante tutto.
Attraverso le vicissitudini della protagonista e i racconti della nonna, seguiamo le vicende che hanno colpito i loro antenati e scopriamo un paese schiacciato da nemici e guerre intestine. Il Novecento ha messo a dura prova la popolazione vietnamita, che ha dovuto affrontare numerosi eventi funesti: la grande carestia del 1945, le violenze e le ingiustizie a proprietari terrieri e commercianti per colpa della riforma agraria, la guerra del napalm e dell’Agente Arancio, e ancora il violento conflitto fratricida tra nord e sud.
Tempo fa abbiamo discusso di come alcuni romanzi non portino il lettore nel paese in cui sono ambientati – se ricordo bene le vicende si svolgevano in Israele ma non ci eravamo sentiti trasportati né in Israele né tra gli israeliani. Ecco, posso invece dire che in questo romanzo storico Phan Quế Mai Nguyễn è bravissima a portarci nel suo Vien Nam, nel passato e nel presente di un paese che viene voglia di visitare. Con una storia di attese, speranze, dolore, ritorni e partenze, ci racconta dettagli sugli anni che hanno distrutto la sua nazione, condivide la sofferenza inflitta alla popolazione e le ingiustizie che ci sono in ogni guerra, anche in quella di adesso. Ci apre gli occhi sulle tradizioni del suo paese, sulla bellezza dei proverbi e sull’importanza del loro significato.
Temevo di non terminare la lettura in tempo per l’incontro di fine marzo. All’inizio contavo le pagine ancora da leggere e le dividevo per il numero di giorni che mancavano all’incontro. Sono partita dal dover leggere 38 pagine al giorno e riuscirci mi sembrava una chimera. Mi definisco una lettrice dell’ATM (soprattutto in Metropolitana) e lavorare da casa non aiuta le mie letture. Ma non avevo considerato che questo è un romanzo storico… e io adoro i romanzi storici. Per farla breve, per la prima volta in tanti anni che leggo, la storia avvincente mi teneva sveglia fino a tarda notte e sono arrivata all’ultima pagina con diversi giorni di anticipo! Non riuscivo a crederci.
Concludo con una nota sui ringraziamenti: raramente gli autori ringraziano il team che si occupa della traduzione e della pubblicazione in un paese straniero. Phan Quế Mai Nguyễn lo fa. Un bel gesto che dimostra l’umanità e la sensibilità di questa autrice, che spero pubblichi altri romanzi. Come abbiamo detto durante l’incontro, la storia dello zio Minh merita un romanzo a sé.
Legato al romanzo, segnalo:
Intervista a Nguyễn Phan Quế Mai, autrice del libro “Quando le montagne cantano”
– il sito web dell’autrice (in inglese): nguyenphanquemai.com
– il discorso dell’autrice al “UN Day” presso la Jakarta Intercultural School dal titolo Empowering others is to empower ourselves che possiamo tradurre con Dare forza agli altri è dare forza a noi stessi.

Suor Hiên mi prese la mano, ma mi fece subito richiudere le dita. “È inutile sapere, figlia mia. Le sfide che ci attendono sul nostro cammino sono state messe lì per una ragione. Quelli che riescono a superare le difficoltà e rimanere umani verso il prossimo raggiungeranno il Budda nel Nirvana. Siete una donna forte Dieu Lan. Riuscirete a superare qualsiasi sfida vi troverete davanti.” Mi sorrise e mi diede una campana di legno. “Questo è il mio regalo per voi. Budda sentirà le vostre preghiere. Lasciate che venga e vi porti pace.”
[…] Prego spesso per suor Hiên. Non solo ha salvato la mia vita e quella di Thuan, ma ha salvato anche il mio spirito. Grazie a lei sono diventata buddista. Ho praticato il Nhan, la pazienza, che c’insegna come amare gli altri esseri umani. Solo attraverso l’amore possiamo spazzare via dal mondo oscurità del male.

Quando le montagne cantano – Pag. 319

Commento della Bandita Sfogliatella:
Romanzo che si sofferma sulle sofferenze del popolo vietnamita, tra colonizzazione giapponese, francese, guerra civile e occupazione americana. Personaggi dolci e forti, come al solito, le donne sono sempre costrette a pagare un prezzo molto alto in termini di sofferenza durante le guerre. Commovente il personaggio della nonna, sempre alla ricerca della comprensione e del perdono, con il suo insegnamento dell’universalità della cultura che unisce le genti. Unica pecca è la parte relativa alla lettera dello zio Minh: troppo lunga e messa alla fine, soluzione ottocentesca, meritava uno sviluppo a parte. Forse un sequel?

Ci vediamo il 28 aprile, sempre in biblioteca, per discutere e analizzare:
Il ristorante dell’amore ritrovato di Ito Ogawa
Lezioni di piano di Jane Campion e Kate Pullinger

Per l’incontro di fine settembre abbiamo deciso di (ri)leggere Vita e destino di Vasilij Grossman. Riporto il commento fatto dalla nostra Bandita Vino Bianco durante la presentazione: “Visto il momento storico che stiamo vivendo, questo romanzo è da leggere – o rileggere.”

Buone letture a tutti!



Incontro del 24 febbraio 2022

La Banda del Book si è riunita online il 24 febbraio 2022 per commentare Un indovino mi disse di Tiziano Terzani e Rosso come una sposa di Anilda Ibrahimi.
Anche in questa occasione abbiamo optato per l’invio del contributo via email e quel che segue è il report condiviso.

Un indovino mi disse di Tiziano Terzani
Commento del Bandito Panettone:
Un viaggio attraverso l’Asia, senza mai prendere aerei, è questo ciò che decide di fare Terzani per un anno, ricordandosi di una vecchia profezia fattagli da un indovino.
L’autore si trova ad osservare paesi e persone della sua amata Asia da una prospettiva diversa, via terra e via mare, spesso ignorata. Il risultato è un libro non ordinario che è insieme avventura, biografia, viaggio e reportage.
Riletto con piacere, a distanza di anni, il testo mi ha suscitato ancora emozioni e si è confermato avvincente come un romanzo, ma nello stesso tempo pieno di particolari come è un racconto di viaggio.
Non mancano le critiche alla sua Asia, a come si stia globalizzando e occidentalizzando.
Indubbiamente un ottimo libro, unico per i temi su cui si basa, forse un po’ ripetitivo negli incontri con i vari “indovini”. Lettura interessante, permette di viaggiare con la mente, non soltanto nello spazio, ma anche indietro nel tempo.

Commento della Bandita Teacher:
Sebbene non creda che il progetto di Terzani fosse quello di scrivere un libro di viaggio, io l’ho letto innanzi tutto come tale. Mi ha affascinato tutto quello che ha raccontato dei paesi in cui è stato, ho cercato e seguito sulla cartina ogni città, ogni stato, ogni confine che ha attraversato. Chiunque ami viaggiare, entrare in contatto con l’anima più profonda dei luoghi e non semplicemente fare il turista non può che invidiare il viaggiare come lui lo ha fatto: niente aereo, solo treni, autobus e, se necessario, anche a piedi, nel pieno spirito di libertà, assaporando al massimo la parte più bella e stimolante del viaggio, che è il viaggio stesso più della meta.
Questo si rispecchia anche nella sua ricerca incessante, a tratti ossessiva, di indovini, astrologi e stregoni: era quello che lo interessava, sicuramente più della predizione stessa, in qualche modo un altro viaggio, il potersi mescolare con la gente durante la ricerca, il piacere di fare domande più che ricevere risposte.
Poi c’è stata una lettura più profonda: una lettura che ha stimolato altrettante riflessioni, pensieri e desideri di approfondimento, attraverso le sue riflessioni e considerazioni sull’occidentalizzazione selvaggia dell’Asia, diventata un’ossessione per gli asiatici, nonché lo sconcerto per il fatto che tutti quei cambiamenti economici, culturali, politici e sociali dei paesi che visita, hanno purtroppo modificato questa area lasciandola senza più valori, ideali o sogni.
Mi sono immedesimata nei suoi conflitti interiori: il comunismo vissuto come l’antidoto al capitalismo occidentale che si rivela altrettanto fallimentare; il suo odio-amore per l’Asia, che ama ma di cui detesta la direzione che ha preso, cioè la prontezza con la quale gli asiatici hanno sacrificato tutta la loro parte più spirituale e un vivere più umano in nome di un progresso materiale poco sostenibile.
Interessante quando parla della transizione dalla spiritualità al materialismo:
Questi indovini sono stati eliminati in quanto nemici della modernità.
Eliminati fisicamente (come fece Mao) per liberare il popolo dalla superstizione.
Ma chi ha preso il loro posto?
Non credo la situazione in Asia sia cambiata in meglio. Possiamo dire che Terzani sia stato lui stesso un indovino!?

Commento del Bandito Birra:
Qualche settimana fa Daria Bignardi ha pubblicato “Libri che mi hanno rovinato la vita” dove il termine “rovinato” non va preso solo alla lettera, ma anche nella forma più estesa di “influenzato”, “indirizzato”. “Un indovino mi disse”, per me fa parte di questi libri. Letto durante la fase di cura da un disturbo d’ansia, mi ha chiarito con un esempio semplice ciò che avevo già iniziato a fare nella mia vita: rallentare. Terzani, un po’ per scommessa, decide di seguire l’ammonimento che nel 1976 gli aveva dato un indovino: nel 1993 non devi volare mai, ne potresti morire. Per tutto l’anno, quindi, continua i suoi spostamenti in Asia, ma evita aerei ed elicotteri, affidandosi a mezzi di trasporto più lenti: treno, nave, automobile, ecc. Questa decisione gli permette di rallentare decisamente il ritmo della sua vita e di osservare ciò che ha intorno a sé, che a causa dei ritmi frenetici prima non aveva potuto apprezzare. E si rende conto che la vita precedente non gli manca affatto. Osserva le persone, i loro comportamenti e si sofferma soprattutto sulla necessità degli uomini di conoscere il proprio futuro. In ogni luogo in cui si reca, cerca di incontrare almeno un indovino. Non che ci creda, ma alla fine si rende conto che ci sono molti tratti comuni e per alcuni aspetti anche logici nei metodi dei vari indovini che incontra.
Lo sguardo di Terzani è interessato, curioso ma quasi mai giudicante. E’ sospeso fra un passato che solo in parte rimpiange e la constatazione mesta che il presente di questi paesi è un’adesione acritica e inesorabile al modello di società occidentale e capitalista, che porta (o può portare) ricchezza economica ma che rende vuote le vite.

Commento della Bandita Golosa di Patatine:
Un indovino mi disse è il libro che cito quando con altri lettori si parla di occasioni in cui sono i libri che scelgono noi e non viceversa. Lo cito perché quando ho provato a leggerlo la prima volta non c’è stato feeling, mi aspettavo tutt’altro… non sapevo chi fosse Terzani e non sapevo che il libro non fosse un romanzo. L’ho riposto nella libreria e lì è rimasto a prendere polvere per anni. Poi mi è ricapitato tra le mani ed è stato amore puro. Ho scoperto la differenza tra turista e viaggiatore. Ho sottolineato frasi e frasi. Ho scoperto un mondo nuovo, descritto con un’analisi lucida e chiara.
Indimenticabile.

Rosso come una sposa di Anilda Ibrahimi
Commento della Bandita Sfogliatella:
Tre generazioni di donne si passano il testimone della vita e della morte nella storia di un paese, l’Albania, che si rivela ricco di cultura e poesia, colpevolmente ignorato, anche se a poca distanza dai nostri confini, identificato con superficialità come terra di occupazione coloniale prima e di emigrazione poi.
Di questo romanzo ho apprezzato soprattutto la prima parte che mi ha piacevolmente incuriosita, le descrizioni dei personaggi e lo sguardo ironico con il quale si presentano.
La bisnonna Meliha, che apre il sipario sulle vicende della famiglia Buronja, sta nel suo Tempo, come un cristallo nella roccia. E’ lei la fonte da cui scaturiscono le intricate storie delle figlie, è lei la custode delle tradizioni, accettate e tramandate, per cui la figura femminile, pur essendo perno e motore della famiglia, resta schiacciata dalla cultura maschilista. Le figlie sono merce di scambio e sono punite se non generano figli maschi, i quali, a loro volta, le renderanno “suocere”, ovvero custodi del gineceo delle nuore.
La nonna Saba, la figlia minore di Meliha, si rivelerà figura di transizione, resiliente (da bambina viene appesa a testa in giù per punizione, non si lamenta e rischia di morire) eppure determinata e coraggiosa: non “forza” mai gli eventi, ma li usa per fare da perno al cambiamento. Intorno a lei, le sue sorelle infelici, si bruciano le ali, quali farfalle accecate dal fuoco della propria follia.
Klementina, la nuora di Saba e madre della voce narrante, dovrebbe essere il personaggio più emancipato, figlia del regime comunista, ma il potere si rivela tirannico e spietato, soprattutto e ancora una volta, contro le donne relegate ad un ruolo subalterno.
La storia si chiude con Dora, la voce narrante, vittima a sua volta di una cultura globalizzata i cui disvalori sono dettati dalle mode effimere, ma sempre spietata contro le donne che tende a colpevolizzare per scelte personali giudicate contro la “morale” comune. La kurveria, l’essere donne “scostumate”, resta l’ultimo tabù da sconfiggere.
La conclusione sembrerebbe così che gli uomini appaiono figure marginali: inetti, inutili, vanesi, infingardi e assolutamente dannosi; le madri, sorelle, mogli e figlie sono costrette a porre rimedi, soccorrere o perire a causa della stupidità del genere maschile.

Commento della Bandita Teacher:
Questo romanzo ci dice di un secolo di Albania attraverso il racconto di una famiglia e di quattro generazioni. Un’Albania che ci sembra di conoscere perché, per certi versi, ci ricorda un’Italia di tanti anni fa. Un’Albania che, pur essendo fondata su un forte sistema matriarcale, ci presenta un panorama di figure femminili nessuna padrona di sé stessa, obbligate a ubbidire, in primis alla suocera.
Le donne non vedevano l’ora di invecchiare per acquisire il potere
che veniva dato loro dalla condizione di suocera
e poi a una società gretta che le sottomette e le obbliga a conformarsi a cliché quali dimostrare il proprio valore dando alla luce figli maschi e allo stesso tempo a stare bene attente a non diventare Kurve (poco di buono/ puttane). Ed è questa la dolorosa vita delle protagoniste della prima parte del romanzo, Meliha e Saba, destinate a sopportare e lottare tacitamente per essere accettata per poi, finalmente, diventare matriarche della famiglia.
Nella seconda parte, c’è un passaggio di consegne e Dora, la nipote di Saba, che diventa la testimone della famiglia. Tutto viene presentato dal suo punto di vista e ci racconta di un’altra Albania, quella sotto il comunismo e dei cambiamenti che questo apporta alla società.
Sorprendenti, ma non troppo, altre affinità con l’Italia, per esempio la visione comune della famiglia che avevano cattolici e comunisti.
Nel progetto del nostro uomo nuovo non erano previsti gli slanci di passione fuori dal matrimonio. Ripensando a queste cose oggi trovo una grande affinità tra la Chiesa Cattolica e il comunismo del mio paese. Ma il nostro comunismo era più feroce di qualunque papa conservatore la storia abbia mai conosciuto.
oppure il maschilismo della società:
Secondo loro era sua la colpa di quanto era successo: si sa che gli uomini ci provano tutti, è dovere delle donne dire di no.
Interessanti e pieni di spunti le parti che si riferiscono ai cambiamenti e alla cultura diffusa dal comunismo: l’interruzione dell’usanza borghese del vestito bianco per le spose, da cui il titolo; la distruzione e/o trasformazione dei luoghi di culto e la lotta contro le religioni, per l’affermazione di un’unica ideologia, quella comunista. Nonostante questo le religioni continuano a far parte dell’orizzonte culturale degli albanesi, infatti Dora racconta che la nonna Saba le raccontava delle storie per convincerla che musulmani, cristiani e ortodossi erano tutti la stessa cosa. Per noi può essere difficile anche solo immaginarlo ma evidentemente l’identificazione con una sola religione non fa parte della storia albanese in cui si parla di chiese, di moschee, di preti, di dervisci.
Sicuramente di grande impatto è come viene trattato il tema della morte, non tanto come dolore o perdita ma come opportunità per rinsaldare il legame che c’è tra il mondo dei vivi e quello dei morti: far loro visita, parlare e raccontare, far sì che siano ancora parte viva della nostra vita. Quando Meliha sente che è arrivata la sua fine e che non potrà più mantenere questo filo chiama Saba, la figlia, che accetta l’eredità e si fa portatrice di questa cultura. Il romanzo si conclude con un altro, seppur tacito, passaggio di consegne: Saba muore e Dora dà alla luce suo figlio. Un’immagine bellissima, della vita che si rinnova e che sento profondamente mia.

Commento del Bandito Birra:
E’ un sorriso indulgente sulla storia di una famiglia, raccontata dal punto di vista delle donne che ne hanno fatto parte, fino all’ultima, l’io narrante del romanzo. La storia si dipana “da suocera a suocera”, perché le suocere sono depositarie di un “potere”: il potere di far rispettare un sistema di regole profondamente maschilista. Si tratta di una società matricentrica più che matriarcale, in cui gli uomini sono “protetti” e di fatto hanno pochissime responsabilità. Lo sguardo però non è di condanna, ma è un po’ come se l’io narrante guardasse un album di foto della propria famiglia.