Quanto desiderava scrivere

Quanto desiderava scrivere, un tempo, nella sua camera di studentessa, alla stregua di una veggente sperava di trovare un linguaggio sconosciuto che avrebbe svelato cose misteriose. Si immaginava anche il libro finito come la rivelazione agli altri del suo essere profondo, una conclusione superiore, una gloria. Cosa non avrebbe dato per diventare «scrittrice», così come da bambina sognava, addormentandosi, di svegliarsi nei panni di Rossella O’Hara. In seguito, in classi selvagge di 40 studenti, dietro un carrello del supermercato, sulle panchine del giardino pubblico accanto a una carrozzina, questi sogni l’hanno abbandonata. Non c’era nessun mondo ineffabile che sarebbe comparso per magia grazie a parole ispirate, e la lingua in cui avrebbe scritto sarebbe stata quella di tutti, il solo strumento con il quale contava di agire su ciò che la faceva ribellare. Il libro da scriversi allora rappresentava uno strumento di lotta. Quell’ambizione non l’ha abbandonata, ma adesso vorrebbe più che altro poter cogliere la luce che bagna volti ormai invisibili, tavole imbandite di vivande scomparse, quella luce che già c’era nelle narrazioni domenicali dell’infanzia e che non ha smesso di depositarsi sulle cose appena vissute, una luce anteriore. […]
Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.

ANNIE ERNAUX – GLI ANNI pagg.264-266

Incontro del 27 gennaio 2022

La Banda del Book si è riunita online il 27 gennaio 2022 per commentare TransAtlantic di Colum McCann e Gli anni di Annie Ernaux.
Anche in questa occasione abbiamo optato per l’invio del contributo via email e quel che segue è il report condiviso.

TransAtlantic di Colum McCann
Commento del BanditoBirra:
Ho iniziato questo romanzo più per dovere che altro. Avevo “mollato” Gli anni e volevo comunque leggere almeno uno dei libri scelti per il gdl di gennaio 2022. A mano a mano che la lettura avanzava mi ha interessato sempre più. L’autore è stato furbo nel mettere come prima storia quella dei due aviatori inglesi che compiono la prima trasvolata atlantica, vicenda che mantiene vivo l’interesse nell lettore. Particolarmente riuscita a mio modo di vedere è l’architettura del romanzo: si parte con una pagina che in realtà è l’epilogo della storia e che vede una donna con figli che risvegliarsi al mattino presto nella casa sul lago: viene da pensare che si tratti della moglie (dal nome impronunciabile) del ricercatore keniano che Hannah incontra nell’ultima parte del romanzo. Seguono le tre Grandi Storie che hanno per protagonisti quattro uomini. La seconda parte è composta da una serie di “piccole storie” che legano fra loro le grandi storie e che hanno per protagoniste solo donne. Come a dire che le donne sono il collante delle storie umane. La terza parte (struggente) vede protagonista Hannah, che “parla” continuamente con il figlio, ucciso durante i “Troubles” mentre se ne stava solitario su una barca sul lago vicino a casa. Hannah deve vendere la casa, essendo piena di debiti e sembra cercare qualcuno a cui passare il testimone della storia. Se la mia interpretazione sul prologo è corretta, probabilmente lo ha trovato.
Una notazione tecnica: l’autore spesso usa il tempo presente. Non è facile raccontare al presente, ma lo fa in verità molto bene.

Commento della BanditaTeacher:
Ho letto questo libro con grande piacere ed emozione. Non sapevo nulla del romanzo e non immaginavo che questa lettura mi avrebbe riportato a cose che mi avevano interessato moltissimo in passato. La familiarità dei temi e degli eventi storici, la sorpresa di ritrovare, in forma di romanzo, nomi e luoghi conosciuti, studiati e visitati ha reso questa lettura una piacevole sorpresa: l’impresa dei due aviatori, la dolorosa e vergognosa great famine, nonché l’accenno alle responsabilità degli inglesi, Belfast con i suoi cantieri, i suoi Troubles e le inutili fazioni tra Nazionalisti e Lealisti, il sogno di una Irlanda senza guerra e il tanto agognato Processo di pace. Interessante la prospettiva con la quale si parla del Good Friday Agreement, senza scendere nei dettagli politici o tecnici dei negoziati ma mostrando il punto di vista  prettamente umano del senatore americano incaricato di cambiare la direzione della storia irlandese. Ecco, ogni parola, ogni frase, ogni riferimento li ho trovati carichi di grandi significati personali, storici e simbolici: il Vickers Vimy non è solo un aereo e tantomeno un bombardiere ma diventa una connessione e questa idea di legame tra America e Irlanda, che ritorna costantemente, è il punto di forza del romanzo.  E l’Atlantico che, invece di essere ciò che di fatto è, una divisione tra  queste due terre, sembra quasi  diventare la celebrazione del loro legame.
Molto bella anche l’architettura del romanzo e l’intreccio tra presente e passato, tra fatti realmente accaduti, in cui i protagonisti sono essenzialmente uomini, e fatti romanzati, in cui prende il sopravvento la presenza femminile. Quattro donne forti, di quattro generazioni diverse che con le loro storie di riscatto, sofferenza e tristezza, ci aiutano a ripercorrere la storia e forniscono il legame con i personaggi del romanzo, nonché con i tre momenti/episodi dell’inizio del libro ai quali non possiamo non riconoscere una grande importanza. Ed è davvero coinvolgente scoprire come, gradualmente, il cerchio si chiuda, il puzzle si completi e i legami, tutti, tra persone e tra luoghi finalmente diventino chiari, o quasi..

Commento della BanditaGolosaDiPatatine:
Il mio primo McCann ed è subito amore. Oltre alla trama, fitta di dettagli, ho apprezzato l’architettura: una struttura a incastro come un mobile Ikea (ringrazio la BanditaRossa per questa definizione che trovo perfetta e di una precisione folgorante). McCann presenta le storie e i personaggi in principio apparentemente slegati per poi unirli e “montare” le loro esistenze in una struttura unica e salda.
Ho amato i personaggi e ammirato la forza di Lily Duggan che abbandona una vita che non avrebbe avuto futuro e parte alla volta dell’America, sola e con pochi soldi in tasca. E riparte da zero.
Ho già in lista Questo bacio vada al mondo intero (anch’esso costruito con il modello del mobile Ikea) e Apeirogon.

Commento del BanditoPanettone:
Storia spezzata, tenuta insieme dalle vicende di quattro donne che vivono nell’arco di 170 anni. Queste donne, legate fra loro per vincoli di discendenza, sono le vere protagoniste. Anche se personaggi di fantasia, esse lottano e vivono duramente, sullo sfondo di periodi storici molto drammatici in cui si muovono personaggi realmente esistiti: il pilota Brown, l’attivista-scrittore Douglass, il senatore americano e mediatore politico Mitchell.
Filo esile, ma resistente che lega come un nastro colorato le vicende del romanzo è una lettera consegnata in tempi molto lontani dalla sua scrittura.
Bello il primo racconto, la transvolata oceanica, con la descrizione del volo alla cieca: si fa fatica a credere che si possa aver volato in quelle circostanze, da eroici pionieri. L’atterraggio di muso nel campo di torba è mozzafiato. Peccato che il resto del romanzo non sia stato … all’altezza. Troppi salti temporali, molti personaggi, troppe cose abbozzate e poi abbandonate, anche se sostanzialmente il romanzo ha una sua coerenza.

Legato al romanzo si segnalano (in inglese):
https://www.nytimes.com/2013/06/28/books/colum-mccanns-transatlantic-explores-ireland-and-us.html
https://www.facebook.com/colummccannauthor/videos/colum-addresses-the-title-of-his-new-novel-apeirogon/1660356534106264/

Dello stesso autore i Banditi segnalano:
Questo bacio vada al mondo intero
Apeirogon

Gli anni di Annie Ernaux
Commento della BanditaRossa:
Sebbene la nascita di Annie Ernaux e la mia siano separate da un quarto di secolo, quanto mi sono ritrovata tra quelle pagine… I discorsi dei pranzi in famiglia della sua infanzia erano i ricordi di mia madre, che mi parlava del “tempo di guerra” così spesso che mi rendo conto di averne un’immagine molto più vivida di molti miei coetanei.
Paradossalmente mi sono ritrovata più nell’infanzia e nella maturità che non nella gioventù: troppo giovane per le lotte studentesche del ’68, non le ho vissute e nessuno me le ha raccontate, però ricordo le battaglie per i diritti nelle domande infantili che facevo a mia madre: “Mamma, che cosa vuol dire aborto?”.
Se avessi doti di scrittrice avrei potuto scrivere io certe pagine sulla disillusione di chi si sente di sinistra e si rende conto che il suo ideale non si è mai realizzato né mai si realizzerà in nessun posto del mondo.
Parimenti mi sono ritrovata nelle pagine che parlano dei figli:

Osservando, ascoltando quei bambini diventati adulti, ci domandavamo cosa fosse a legarci, non il sangue né i geni, solo un presente fatto di migliaia di giorni insieme, di parole e di gesti, di pasti, di tragitti in auto, di esperienze condivise che avevano lasciato dentro di noi una traccia senza che nemmeno ce ne rendessimo conto.
La sera ci ricordavamo del piacere che avevano avuto nel mangiare da noi assieme ai loro amici – felici di aver potuto ancora provvedere al più antico e fondamentale dei bisogni, il cibo. Provavamo per loro una profonda inquietudine, resa ancora più intensa dalla convinzione che noi alla loro età fossimo più forti. Li sentivamo fragili in un futuro informe.

GLI ANNI – ANNIE ERNAUX

E poi, sebbene io non ci sia ancora arrivata, sento che mi torneranno in mente queste pagine quando, come l’autrice, mi disferò dei libri che al momento ho in mano ogni giorno, che uso per preparare le lezioni:

il suo pensionamento, che tanto a lungo aveva rappresentato il limite estremo della sua immaginazione, come già era successo, in precedenza, con la menopausa. Da un giorno all’altro tutti i fogli e gli appunti presi per preparare le lezioni non erano più serviti a niente. Venendo meno un motivo professionale, si era cancellata in lei la terminologia erudita che aveva acquisito per spiegare i testi letterari – obbligandola, nel cercare senza trovarla la denominazione di una figura di stile, a dire ciò che diceva sua madre a proposito di un fiore di cui non ricordava il nome: «l’ho saputo»

Gli anni – annie Ernaux

Dovendo trovare un unico aggettivo per descrivere questo libro sceglierei struggente, come le ultime due pagine che sono solo una carrellata di ricordi, fotogrammi di una vita che racchiudono in poche parole i frammenti da salvare,
salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.

Commento della BanditaGolosaDiPatatine:
Se dovessi scegliere un aggettivo per questo romanzo sceglierei Universale. La Storia che scorre tra le pagine è quella che va dal secondo dopoguerra ai giorni nostri. È la Storia di tutti noi e si fonde con quella personale della Ernaux. Per dirla con le parole dell’Internazionale (migliori di quelle che posso usare io), è una “cronaca a frammenti fotografici della vita di Ernaux, invischiata irrimediabilmente con la storia collettiva”. Leggendo le prime pagine ho ritrovato molti dei commenti e dei racconti dei miei genitori, coetanei della Ernaux, e ho avuto la conferma che la differenza culturale tra l’Italia e la Francia è di parecchi anni a vantaggio della Francia.
Confesso che non è stata una lettura facile. Non ha una trama avvincente e non ci sono veri e propri personaggi da romanzo. Per descrivere il tipo di narrazione, l’autrice usa il termine autobiografia impersonale nella quale utilizza un generico noi e mai un io.

In quella che vede come una sorta di autobiografia impersonale non ci sarà nessun «io», ma un «si» e un «noi», come se anche lei, a sua volta, svolgesse il racconto dei tempi andati.

GLI ANNI – PAG. 264

Ricorre spesso a lunghi elenchi. In generale li adoro (faccio elenchi per ogni cosa e per lavoro scrivo elenchi di procedure da seguire) e come scelta narrativa sono stati una sorpresa folgorante. Mi hanno davvero conquistata.
Vari sono i temi che analizza e che condizionano il percorso di una vita, lunga o breve che sia: la famiglia, la guerra, la politica, la società, gli usi e i costumi, la tecnologia.
Ho percepito il dolore di chi si rende conto del passare degli anni e dell’avvicinarsi della vecchiaia e intanto ripensa con rimpianto e rimorso al passato e a quello che non c’è più. Traspare la volontà di salvare i propri ricordi personali che svaniranno con lei quando non ci sarà più, e lo fa con questo libro che non è più uno strumento di lotta come sognava da giovane (perché le cose, volenti o nolenti, cambiano) ma un modo per salvare qualcosa del tempo in cui non sarà mai più.

Commento della BanditaSfogliatella:
Il fermo-immagine, una serie di polaroid descrittive, legate alla memoria visiva, è la tecnica narrativa usata per aprire e concludere il libro. Va sottolineato che scrivere “per sottrazione”, limitando la descrizione all’essenziale, mettendo a fuoco l’obiettivo, tagliando tutto ciò che distrae dal soggetto, è arte.
Il testo è una sorta di recherche, un tentativo, riuscito, di salvare ciò che altrimenti sarebbe destinato all’obblio, come un album di vecchie foto di cui nessuno più riconosce i protagonisti o le circostanze in cui furono scattate.
Ne emerge un ritratto ricco di particolari della Francia, ma anche del mondo, dagli anni ’60 ai primi del secondo millennio. A prima vista, si fa evidente alla memoria del lettore più vicino all’epoca dei fatti descritti, un “anticipo” culturale della Francia, rispetto all’Italia, di circa un decennio. Alcune vicende, personalmente, risultano peculiari e troppo lontane nel tempo, poi col passare degli anni, si riconoscono fatti e personaggi, le vicende si fanno via via sempre più attuali, fino alla “globalizzazione” della notizia: economia di consumo, AIDS, crisi finanziaria mondiale, 11 settembre, stragismo, terrorismo, avvento dell’era informatica, cellulari e pc che hanno stravolto le nostre esistenze.
Altro aspetto notevole è il distacco emotivo, quasi un tentativo di rimozione, laddove le riflessioni o le esperienze si fanno più personali e profonde, soprattutto nella sfera sessuale e molto privata, che viene tradotto dall’autrice nel ricorso all’espediente narrativo dell’uso della terza persona. Ancora una volta è la scrittrice/fotografa che “osserva” i fatti dall’esterno, che li presenta in un contesto collettivo, un “noi”, così come voleva la visione sociologica della filosofia, ispirata dal profeta del collettivismo, Pierre Bourdieu, a cui la scrittrice deve la sua matrice ideologica.

Legato al romanzo si segnala questo articolo dell’Internazionale: https://www.internazionale.it/weekend/christian-raimo/2015/06/14/letteratura-autofiction-meraviglia

Le citazioni riportate in questo resoconto sono tratte dall’edizione L’orma editore, 2015. Traduzione di Lorenzo Flabbi.

Per il prossimo incontro:
Un indovino mi disse di Tiziano Terzani
Rosso come una sposa di Anilda Ibrahimi

Incontro del 16 dicembre 2021

La Banda del Book si è riunita online il 16 dicembre 2021 per commentare La strada di Cormac McCarthy e Canne al vento di Grazia Deledda.
Anche in questa occasione abbiamo optato per l’invio del contributo via email e quel che segue è il report condiviso.

La strada di Cormac McCarthy
Commento del BanditoBirra:
Trovo giusto che il romanzo non sia suddiviso in capitoli. La suddivisione in capitoli interromperebbe la continuità necessaria, in un racconto del genere, a far percepire la disperazione della situazione.
Le persone non hanno un nome, forse non lo hanno più. I nomi appartengono a quel mondo che non c’è più.
Non si sa che cosa abbia causato lo stato attuale ma è giusto così perché non esiste più un passato (e nemmeno un futuro).
Con il procedere del romanzo, il bambino si rende conto che anche il suo papà ha dei limiti.
Il viaggio per il bambino è un momento di conoscenza. Per certi aspetti è un romanzo di formazione.
Ho iniziato il romanzo immedesimandomi con il padre e con la sua spietatezza nei confronti degli altri: lui e il bambino dovevano fare di tutto per salvarsi. Con l’avanzare del romanzo e con la progressiva sensazione della catastrofe, l’umanità del bambino riemerge sempre più come qualcosa di necessario.
Verità e menzogna: tutto il romanzo, in fondo, racconta anche il rapporto con la verità.

Commento della BanditaTeacher:
La strada è un romanzo che non solo mi ha colpito durante la lettura ma ancora stimola in me pensieri e riflessioni. Innanzi tutto continuo a pensare ai due protagonisti e in particolar modo al bambino, figura travolgente e commovente. Un bambino che non ha visto nulla nella vita se non orrori ma, nonostante questo, ha un animo compassionevole, altruista e generoso. Come tutti i bambini dipende dal padre per la sopravvivenza, ma si sente, allo stesso tempo, responsabile per entrambi e agisce per garantire un comportamento eticamente corretto che li faccia rimanere dei “good guys”, dei “buoni”. Incarnando una integrità, talvolta difficile da immaginare, rappresenta la luce in fondo al tunnel, l’ultimo barlume di speranza, rifiutando ogni tipo di violenza e sempre proteso verso l’altro.
Significativo e toccante il rovesciamento del ruolo padre-figlio a seguito del peggioramento delle condizioni del padre. “What are we going to do, Papa” (pg 295) dice il padre al figlio. Il padre chiama Papà il figlio. In questo capovolgimento il padre si mostra tanto debole e indifeso quanto lo era stato il figlio che ora si prende cura di lui, lo assiste negli ultimi momenti di vita e lo veglia da morto. Questa scena, davvero toccante, calza e completa la predisposizione del ragazzo a preoccuparsi e prendersi cura di tutto, a incarnare la speranza che scioglie il dubbio che sì, vale ancora la pena vivere! E quindi capiamo che il padre non l’ha salvato invano.
Altri spunti di riflessione riguardano la scelta della madre, secondo me solo apparentemente egoista, di arrendersi alla brutalità del presente perché certa che non ci sarà un futuro degno di essere vissuto. Mentre il padre trova nell’immenso amore  per il figlio la forza per non arrendersi, l’amore della madre, che non può che essere  altrettanto grande, non le permette di poter reggere al declino e alla distruzione dell’umanità.
Intensa e altamente simbolica la scena finale che offre un breve sollievo dopo il senso di ansia, e turbamento che ci ha accompagnato per tutto il romanzo. È una scena che ci riporta al nostro mondo, in cui il cielo e il mare sono ancora blu e le trote guizzano nei fiumi. Questa immagine ripropone la dualità del bene contro il male, tema sempre presente nel romanzo, e ci offre, da una parte una via di fuga, facendoci pensare che la vita trova sempre una soluzione all’interferenza umana, dall’altra ci rimanda alle brutalità del romanzo rendendoci consapevoli di quanto noi stiamo sopravvalutando la forza del nostro pianeta, trascurando le sue fragilità. 
Infine una breve considerazione sullo stile narrativo, che in assoluto non amo particolarmente ma credo, che in questo caso, sia stato fondamentale e indispensabile per comunicare l’anima del romanzo. Uno stile fatto di frasi brevissime, frammentate, talvolta incoerenti; sostantivi e aggettivi ripetuti più e più volte che, come pennellate, scolpiscono un paesaggio grigio, morto, ormai sterile e raccapricciante. Una sintassi piatta e cupa ma funzionale a creare un’atmosfera tetra, opprimente e di disperazione che si riflette nei dialoghi altrettanto disperati. Una costruzione linguistica che avesse rispettato i canoni di una sintassi tradizionale sarebbe risultata dannosa per l’autenticità della storia.

Commento della BanditaSfogliatella:
Sicuramente non avrei mai letto il romanzo di mia iniziativa (non amo il genere distopico/catastrofico), ma fidandomi delle proposte della Banda, ho accettato con curiosità. La storia è senza dubbio avvincente ed inizialmente non è facile “staccarsi” dalle pagine di lettura: il mondo è ridotto in cenere ed il lettore vorrebbe scoprire il perché; un uomo e padre coraggioso ed il suo bambino pieno di speranza (i buoni) cercano di sopravvivere, raccattando gli ultimi rimasugli di cibo rimasti sulla terra e devono sfuggire a disperati, assassini e cannibali (i cattivi). Diciamo che gli espedienti (furbi) narrativi per tenere desto l’interesse ci sono tutti e non a caso sono stati presi per un film ispirato al romanzo. Tuttavia, la storia finisce per diventare ossessiva e pesante da reggere e, da parte del lettore, cresce un senso di angoscia, si saltano le righe pur di arrivare in fretta al finale (inevitabilmente) strappalacrime. Lo stile è monotono, la trama è da videogioco, i personaggi sono bianchi o neri, potrebbero essere quelli di un western. Classico best seller, ma non sempre, si sa, il successo editoriale coincide con la qualità.

Commento della BanditaGolosaDiPatatine:
Quanta angoscia in questo romanzo… sarà che la pandemia non ci ha ancora abbandonati ma il pensiero di una fine del mondo in cui per sopravvivere bisogna scappare da chi vuole ucciderti per mangiarti non aiuta. Ho trovato i personaggi tagliati con l’accetta e la madre eccessivamente egoista. Per cercare di spiegarmi il successo editoriale di questo romanzo, ho visto il film. Fedelissimo al romanzo – tanto da ripetere esattamente gli stessi dialoghi – mi ha lasciato la stessa angoscia. Un pugno nello stomaco come Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro. Sarà questa la loro bellezza? O la discussione che ne emerge? Non lo so. Quel che so è che questo è un genere che non amo.

Legato al romanzo i Banditi segnalano:
– Il film “The road” di John Hillcoat con Viggo Mortensen, Charlize Theron e Kodi Smit-McPhee nel ruolo del bambino. Dettagli qui: https://www.mymovies.it/film/2009/theroad/

Canne al vento di Grazia Deledda
Commento della BanditaSfogliatella:
Memorabili descrizioni, come la scena del ballo per la festa della Madonna del Rimedio, quasi un sabba, un vortice di donne, che inghiotte Efix e poi Giacinto. Oppure il canto, in chiesa, solenne, di un “popolo antico”, mitologico, figlio di una terra arcaica, primitiva e pura. Le dame Pintor, stirpe nobile e decaduta, come madonne lignee dipinte, esposte sugli altari. Terra di spiriti custodi: folletti, vampiri, fantasmi, spiriti, morti le cui ossa occhieggiano dai fossi del cimitero. Descrizioni della  Natura, minuziose e colorate: fiori, frutti, arbusti, coralli, animali e poi vini, dolci…Forte è il contrasto città/ campagna: il mondo di Efix, il suo poderetto così amato e la città di Giacinto, con i suoi dis-valori, la ricchezza, il gioco, la corruzione, il disprezzo per la semplicità, la ricerca dell’apparenza.I personaggi sono delineati, con tocchi di maestria, da tratti essenziali: la gentilezza dei gesti di Efix, gli occhi irrequieti Noemi,  le dita che fermano lo scialle di Ester, i coralli di Pottoi, il fuso di Kallina, le canne che si piegano per assecondare il vento. Capolavoro!

Un pomeriggio alla Scala

Ho assistito alla recita del Macbeth del 19 dicembre 2021, dunque ho trovato calzanti ed anche un po’ inquietanti le parole che Banco canta alla fine del primo atto, poco prima che si scopra che Re Duncano è stato ucciso: “E della terra si sentì il tremore…”. Io il tremore l’avevo sentito forte e chiaro il giorno prima.
La posizione era buona: in platea un po’ spostato verso sinistra, la visione del palco era pressoché perfetta, anche per la mancanza di persone troppo alte davanti a me. Purtroppo un’insufficiente compatibilità fra la poltrona e il mio lato B ha reso un po’ scomoda la seduta.
Per un certo tempo mi sono sentito isolato dal resto degli spettatori, come se stessi guardando un dvd a casa. Quando me ne sono reso conto ho pensato che non dovevo sprecare l’occasione: stavano cantando per me, Anna Netrebko (la diva) stava cantando e anche ballando per me. Vabbè, non era solo per me, ma era bello pensarlo.
Devo dire, se ancora ce ne fosse bisogno, che Orchestra e Coro della Scala sono di un livello eccezionale. Credo che siano ben pochi i teatri al mondo che possono reggere il confronto.
E veniamo ai cantanti.
Luca Salsi (Macbeth) si conferma baritono degno della Scala, dove aveva già interpretato uno Scarpia di grande livello nella Tosca che aveva aperto la stagione 2019-2020. Forse enfatizza troppo certe frasi, ma la voce piena con buona resa anche sui piani e pianissimi lo rendono uno dei migliori baritoni in circolazione oggi.
Anna Netrebko (Lady Macbeth) si mostra un pochino in difficoltà sulle note più alte, probabilmente con il tempo la sua voce si è un pochino abbassata. Ma sul registro centrale e sulle note basse è eccezionale e i suoi pianissimi sono da brivido.
Ildar Abdrazakov (Banco) per me è stato una delusione. Voce intonata per carità, ma “sbandiera” veramente troppo per i miei gusti. E’ stato comunque applauditissimo, segno che la sala non era d’accordo con me.
Francesco Meli (Macduff) è stato molto convincente. E’ la terza volta che lo sento cantare in teatro e di sicuro questa è la recita in cui è riuscito meglio. Di solito è un po’ in difficoltà sulle note alte e indulge al falsetto. Qui invece si è mostrato sicuro e consistente, anche dal punto di vista recitativo.  
La regia: Davide Livermore non si smentisce. Se volete regie tradizionali, evitate le sue. L’idea di collocare il Macbeth in un’azienda moderna in cui i dirigenti si scannano per emergere è buona e mostra, se ce ne fosse bisogno, che la sete di potere è attuale come lo era nell’antica Scozia. Al solito però Livermore alterna soluzioni belle e ben realizzate a momenti di cui si fa fatica a capire il senso. Devo dire che rispetto ad altre sue regie questa mi pare riuscita meglio. Lo sfondo come un film continuo mostra momenti veramente emozionanti ma anche qualche barocchismo che alla fine infastidisce un po’. Ho trovato però di grande effetto la scelta di animare la danza delle streghe (inizio del terzo atto, balletto composto specificamente per la rappresentazione al Grand Opera di Parigi nel 1865, scena che si solito viene tagliata) non con le streghe ma con una coreografia molto bella che coinvolge il bambino e poi anche la Lady. Nel secondo atto, quando appare il fantasma di Banco l’attenzione viene spostata sulla sinistra (per chi guarda) del palcoscenico e quando si cerca nuovamente Banco, questo è sparito !
Ho temuto fortemente per la Netrebko che canta la scena del sonnambulismo su un piano sopraelevato di alcuni metri rispetto al palco, per poi accorgermi che era assicurata alla ringhiera posteriore con un sistema di sicurezza.
E infine Macduff che da buon dirigente, dopo aver ucciso Macbeth, si spazzola il vestito per mostrarsi inappuntabile e poi quando proclama re Malcolm il suo sguardo non è di sottomissione, ma fa pensare che altre invidie potranno svilupparsi nell’azienda, pardon, nel regno di Scozia.
Una nota finale: ma se la Scala vuole avere regie innovative per le sue prime, perché non mette sotto contratto Damiano Michieletto, regista innovativo che raramente sbaglia ? Ho visto un Rigoletto assolutamente geniale ed un Elisir d’amore anch’esso molto bello. Se poi si vuole andare all’estero, c’è il grande Calixto Bieito e soprattutto Robert Carsen, forse il più bravo di tutti. Costano troppo ?

Incontro del 25 novembre 2021

La Banda del Book si è riunita il 25 novembre 2021 presso la Biblioteca Crescenzago per commentare Arboreto Salvatico di Mario Rigoni Stern e Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia.
Anche in questa occasione abbiamo optato per l’invio del contributo via email e quel che segue è il report condiviso.

Arboreto Salvatico di Mario Rigoni Stern
Commento di Giorgio:
Vari temi si intrecciano in questo “Arboreto salvatico”, un libro che è difficile definire: certamente non è un romanzo, ma non è nemmeno un saggio. Lo si potrebbe quasi definire un libro di racconti, dove ogni capitolo racconta un albero. E’ un libro che nasce dall’esperienza quotidiana, che Rigoni arricchisce con nozioni di botanica, riferimenti culturali e letterari e particolari sull’uso che si fa del legno di quel particolare albero. È il libro di un “ignorante” che ha letto moltissimo nella sua vita. Leggerlo mi mostra (se ce ne fosse bisogno) la mia abissale ignoranza in fatto di natura. È il libro di un uomo che ha un rapporto stretto con la natura che lo circonda e da questa ha appreso un senso del tempo che che noi abbiamo perso in gran parte: il senso delle stagioni, delle stagioni della vita, del costruire qualcosa che vada oltre la propria vita. Più volte si ritrova a scrivere che il risultato delle sue cure (fiori, frutti, ecc.) non sarà lui a vederlo, ma saranno i suoi figli e i suoi nipoti.

Commento di Moira:
Un libro che definirei enciclopedico e che mai avrei letto se non fosse stato proposto al gruppo di lettura. Ho apprezzato molto i ricordi e i dettagli legati a ogni albero e meno le parti che sembrano perfette per un’enciclopedia della botanica. Gli esperti di montagna e di flora avranno sicuramente modo di ritrovare e riconoscere elementi noti e vicini a loro. Interessanti i commenti ecologici, uno su tutti il taglio degli abeti per gli alberi di natale. Un libro prezioso, commovente ed emozionante.

Commento di Cristiana:
Ho approcciato questo libro pensando che si trattasse di una raccolta di racconti come “Il sistema periodico”, uno per ogni albero, invece mi sono trovata tra le mani un manuale di botanica ed erboristeria in cui la descrizione delle piante si alterna ad aneddoti e ricordi dell’autore.
Le descrizioni sono quelle che si possono trovare in un manuale per naturalisti, piene di termini a me sconosciuti, che hanno reso la lettura a tratti difficoltosa: avrei apprezzato la presenza di illustrazioni esplicative o almeno di foto degli alberi descritti, che invece ho dovuto andare a cercare in  rete.
Ciononostante ho apprezzato questo piccolo libro perché, pur non essendo un romanzo, racconta episodi della vita di Rigoni Stern, frammenti della sua infanzia, ricordi di persone che ha conosciuto con una gran forza evocativa. Si sentono le voci dei bambini che giocavano tra quegli alberi e lo scricchiolio del legno di noce, il sapore asprigno delle mele selvatiche fatte seccare per mangiarle in inverno, il profumo della tisana di tiglio.
C’è il bambino, l’adulto ma soprattutto l’anziano, che lascia quegli alberi ai suoi nipoti perché ne mangino i frutti o li taglino. Mi ha colpita percepire in queste pagine, più del rimpianto di un vecchio, il suo pensiero rivolto al futuro.

Commento di Grazia:
Ho letto questo libro in ordine sparso, guardando l’indice e lasciandomi guidare da curiosità personali che mi hanno portata a scegliere prima la lettura di un tipo di albero piuttosto che un altro. Sono partita dal Tiglio, perché il tiglio, con il suo profumo speciale e inebriante, le sue chiome che pian piano si infoltiscono dando un sollievo alle calure estive, è una sensazione ancestrale che ancora mi porto dietro e alla quale non riesco a essere indifferente. Ecco, questa sensazione l’ho ritrovata quando, nel capitolo dedicato a quest’albero, Rigoni Stern riporta dei versi della poesia Un viale di tigli di Pasternak:

….Vengono i giorni della fioritura
e i tigli in una cinta di steccati
diffondono insieme con l’ombra
un irresistibile aroma.
La gente che passeggia sotto i tigli
col cappello d’estate vi respira
questo forte odore inesplicabile,
ma familiare all’intuito delle api………

Un viale di tigli, Boris Pasternak

E poi il miele di tiglio, il mio preferito.
Ho continuato così, seguendo le mie simpatie e scoprendo cose nuove e tante curiosità come, per esempio, che il faggio è “un albero socievole” o che il salice, Salix Viminalis, ha dato il nome al colle di Roma, il Viminale, che l’ulivo di Puglia è un generatore di emozioni, (come poterlo negare!) e che in passato tirare le noci agli sposi, come oggi facciamo con il riso, era di buon auspicio. Per non parlare delle sorprendenti affermazioni, solo apparentemente anti ecologiche, quando parla dell’abete.
Per ultimo ho letto il tasso perché, mi spiace dirlo, quest’albero mi ispirava solo indifferenza e, invece, proprio l’anonimo tasso mi ha riservato una grandissima e piacevolissima sorpresa: un tasso monumentale, probabilmente il più grande d’Italia, per dimensioni ed età, si trova nel giardino dell’abbazia di Fonte Avellana, alle pendici del monte Catria, luoghi a me molto cari che si trovano a pochissimi chilometri dal paese in cui sono nata e cresciuta. (Non vado oltre ma vi invito a documentarvi su Fonte Avellana per scoprire chicche letterarie!). Purtroppo il tasso viene anche chiamato l’albero della morte, per la sua tossicità, ma questo gli ha fatto guadagnare una citazione nel Macbeth di Shakespeare! (Atto 4 Scena 1).
Insomma, la lettura di questo breve libro/manuale è stata sicuramente piacevole, inaspettata e a tratti anche divertente. Rigoni Stern ha saputo trasmettere il suo essere “salvatico” (selvatico+salvifico? non lo so ma mi piace pensare che sia così), omaggiando i suoi amici alberi così vitali per l’umanità, che non sempre ricambia.
Forse l’unica parte che ho trovato ostica è quella più specifica in cui l’autore si addentra in
dettagliate spiegazioni di botanica, talvolta incomprensibili anche per l’uso di termini a me
sconosciuti.

Legati al libro, il Bandito Giorgio segnala:
1) Laurea honoris causa in Scienze Forestali ricevuta dall’Università degli Studi di Padova l’11 maggio 1998 (https://www.youtube.com/watch?v=aOnqncL1HWw&t=1s).
2) Lectio magistralis in occasione della laurea honoris causa in Scienze Politiche ricevuta dall’Università di Genova il 14 marzo 2007 (https://www.youtube.com/watch?v=RGwRgLzut9Q).
3) Trasmissione “Italiani” di Paolo Mieli dedicata a Mario Rigoni (https://www.youtube.com/watch?v=hF__M6E-g-s).
4) Marco Paolini: Il Sergente (https://www.youtube.com/watch?v=eTV4Y4OvTDQ).
5) “Ritratti”: Marco Paolini conversa con Mario Rigoni Stern. DVD reperibile in biblioteca (https://milano.biblioteche.it/opac/detail/view/mi:catalog:942610)

Čechov, nel 1888, scriveva: “Chi conosce la scienza sente che un pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l’uno e l’altro sono creati da leggi egualmente logiche e semplici”.

Arboreto Salvatico, Mario Rigoni Stern

Passaggio in ombra di Mariateresa Di Lascia
Commento di Silvana:
La proposta di lettura è nata da un articolo del settimanale “Robinson” de La Repubblica che rievocava la scrittrice, scomparsa prematuramente, circa trent’anni fa e vincitrice postuma di un premio Strega. Ricordavo di aver letto “Passaggio in ombra” alla sua uscita, e di averlo amato subito, ma oltre alla vicenda per sommi capi, non avevo memoria d’ altro. L’ho riletto interamente con interesse e apprezzandone maggiormente il valore.
Con una scrittura antica, elegante sobria e ricercata, il romanzo non si presta ad una lettura superficiale o frettolosa. (Le radici di Elena Ferrante sono certamente anche qui.)
Racconto intimo e nello stesso tempo corale di Chiara, la voce narrante, sin dall’infanzia destinata alla solitudine come le altre donne protagoniste, “isole” riunite in un arcipelago di separatezza. A cominciare dalla nonna Chiara, con la quale divide il nome e la malattia: sono entrambe sofferenti d’asma, metafora della mancanza d’aria o d’amore. Poi c’è Anita, che pur di sfuggire alla solitudine inciampa in un uomo incapace di slanci, un debole. E ancora donna Peppina e Giuppina, donne costrette a matrimoni di convenienza, che adottano Chiara e cercano di farne l’oggetto dei propri sogni irrealizzati. Chiara cresce nell’illusione di essere realmente amata da suo padre e dal primo amore Saverio, ma ben presto si rende conto della loro vigliaccheria e si punisce, si colpevolizza e rinuncia ad ogni velleità, ma la sua scelta non è rinuncia, bensì resilienza. Chiara, ormai verso la fine della sua esistenza, si vede come una “farfalla trafitta da uno spillo” e trascorre il resto della sua vita da accumulatrice seriale di stracci o vecchi vestiti e memorie, consapevole che le figure che l’hanno circondata erano comunque alla ricerca anch’esse di amore, per quanto fragile, e per questo hanno lasciato una scia luminosa, prima di sparire per sempre nel passaggio d’ombra.

Commento di Grazia:
Romanzo di spessore e intenso come intensa e densa è la scrittura, soprattutto nelle parti in cui Chiara, la protagonista, abbandona la narrazione e si immerge nella sue considerazioni che sono spunti per altrettante riflessioni del lettore. Riflette sulla sua malattia, dalla quale si lascia sopraffare. Lei è la malattia che esplode soprattutto quando non riesce a dar voce a se stessa, al suo “Io”, definendola “espansione negata dell’io”. Riflette sulla sua “inanità” dalla quale si lascia invadere, dalla sua abulia che cresce dopo la morte della madre ma alla quale cederà completamente dopo la grande delusione e la costrizione a dover rinunciare al suo amore, Saverio.
Riflette sulle sue “felicità segregate” ricordando il tempo in cui, invece, la felicità era ovunque. Una felicità che è rimasta prigioniera e intrappolata e che l’ha lasciata senza futuro. Chiara vive nel ricordo struggente racchiuso in un cassettone, la sua vita è vuota e mai cede a un tentativo di riscatto, mai riesce a concretizzare un proposito.
E questo mi chiedo, soprattutto dopo il confronto con alcune bandite lettrici: si può rimanere ostaggio delle proprie delusioni fino al punto di rinunciare alla propria dignità di donna e di persona senza mai cedere al minimo stimolo di emancipazione? Chissà perché Mariateresa Di Lascia, donna di cultura e grande impegno politico, combattiva ed estremamente sensibile alle questioni femministe e dei diritti civili in generale, ha poi scritto di una donna che non approfitta delle premesse che la vita le aveva offerto e fa dell’apatia e dell’inerzia il suo stile di vita? Perché non c’è in tutto il romanzo un solo personaggio positivo? Forse che abbia voluto raccontare di un mondo femminile dominatore, ma allo stesso tempo vittima di se stesso e di uno maschile insensibile e rozzo? Era questo quello che aveva percepito attorno a sé dal quale è scappata e che poi l’ha spinta all’impegno civile? Domande che molto probabilmente rimarranno senza risposta, alle quali possiamo rispondere solo secondo il nostro sentire.

Incontro del 28 ottobre 2021

La Banda del Book si è riunita il 28 ottobre 2021 presso la Biblioteca Crescenzago per commentare La leonessa bianca di Henning Mankell, L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez e Macbeth di William Shakespeare.
Anche in questa occasione abbiamo optato per l’invio del contributo via email e quel che segue è il report condiviso.

La leonessa bianca di Henning Mankell

Commento di Anna:
La leonessa bianca l’ho proposto perché oltre ad essere un romanzo che segue i personaggi in due emisferi, racconta una storia appassionante dove è  il caso in maniera negativa all’inizio (l’omicidio di una donna che si è trovata in un dato momento e luogo) e in maniera positiva alla fine Wallander manda un fax in maniera completa e così facendo salva Nelson Mandela da un attentato, la fa da padrone. E comunque lo scrittore racconta benissimo i personaggi e le situazioni.

Commento di Grazia:
Sebbene talvolta prolisso ho trovato la lettura di questo romanzo piacevole ma soprattutto interessante da un punto di vista storico.
Delle due narrazioni parallele, una in Svezia, in cui il commissario Kurt Wallander conduce un’indagine per scoprire cosa c’è dietro l’uccisione di una donna, e l’altra in Sudafrica, dove capiamo cosa effettivamente si cela dietro ciò che Wallander cerca di scoprire, ho apprezzato di più la seconda, quella che in un certo senso serve da background o cornice. Una cornice che ha incontrato i miei interessi: il Sudafrica, la sua storia, le colonizzazioni, le discriminazioni razziali.
Sebbene talvolta si intravveda della retorica sui bianchi-cattivi e i neri-buoni non si tratta solo di una storia del bene contro il male ma ci si inoltra verso l’origine dell’Apartheid, l’assoluto predominio dei bianchi boeri convinti di essere il “popolo eletto” che rifiuta ogni mescolanza con neri, inglesi e chicchessia.
Molto interessanti sono gli spunti che offrono due personaggi del racconto: Victor Mambasha, un nero assoldato per compiere l’attentato a Nelson Mandela, e Peter Von Heerden, dei servizi segreti, nonché informatore del presidente de Klerk. Questi due personaggi, provenienti da ambienti e vissuti completamente diversi giungono alla stessa conclusione: la constatazione della menzogna nella quale tutti sono stati costretti a vivere.
Victor Mambasha parla della menzogna della superiorità dei bianchi, della menzogna che lo ha reso un assassino, la menzogna che lo ha svuotato dentro e ha saccheggiato la sua anima, la menzogna che si è trasformata in odio. Lo stesso odio che molto probabilmente la nanny nera di Peter Von Heerden  provava, quando da bambino lo accudiva e lo cresceva dovendo mostrare del falso affetto e quindi mentendo e nascondendo il proprio odio. Peter Von Heerden, boero illuminato, da ragazzo, dopo la visita a un ghetto, rimane sconvolto, non si capacita di come questo sia possibile nello stesso paese e si rende conto che tutto quello che aveva vissuto fino ad allora altro non era se non una terribile menzogna elevata a terribile verità.
Ciò che mi è piaciuto particolarmente del romanzo è questa riflessione sulla verità-menzogna, attuale anche nella nostra parte di mondo, con la quale, in Sudafrica, si deve purtroppo ancora fare i conti, perché affrontare la problematica società post-apartheid si è rivelato altrettanto difficile e impegnativo.
Tutto il resto è stato, per me, piuttosto marginale. Un giallo che non è un vero giallo, tant’è vero che dopo le prime cento pagine circa si capisce abbastanza dell’intreccio thriller-socio-politico; il finale ha delle cadute di stile   quando  l’autore, per  far tornare i conti della narrazione,  fa accadere delle cose poco probabili e che sicuramente lasciano i lettore perplesso.
L’ultima considerazione è su Kurt Wallander. Un commissario piuttosto anomalo, il quale, lungi dall’essere cinico e forte di fronte alla violenza, è spesso scioccato dalle brutalità a cui lo sottopone il suo lavoro: mai spietato e spesso compassionevole anche di fronte al peggior criminale. Ha un atteggiamento antiautoritario su cui incide anche la sua vita privata altrettanto “sgangherata”. Insomma, come non si può simpatizzare con Wallander e le sue fragilità?
Concludo dicendo che sono stata una fan accanita del Wallander televisivo interpretato da Kenneth Branagh, tra l’altro grandissimo interprete Shakespeariano, che preferisco a quello letterario.

Commento di Maurizio:
Non è un caso che il romanzo, scritto nel 1993, sia ambientato in parte in Svezia e in parte in Sudafrica: Mankell è nato a Stoccolma, ma ha trascorso buona parte della sua vita in Mozambico, occupandosi anche di aiuti umanitari. L’autore adopera il genere del giallo per far emergere una realtà storico-sociale molto attuale ai tempi della stesura del libro: il regime dell’apartheid e la transizione verso la libertà. Anche nel suo primo romanzo, con protagonista il commissario Wallander, “Assassino senza volto”, Mankell affrontava i temi del razzismo, scegliendo di schierarsi sempre dalla parte dei più deboli.
Interessante anche il protagonista della serie, il commissario Wallander, un uomo con molte problematiche psicologiche legate al suo lavoro e che vive uno strano rapporto con il padre.

L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez

Commento di Giorgio:
È uno di quei romanzi che potrebbero essere lunghi anche il doppio o il triplo e non mi stancherei di leggere. Nato, così pare, per raccontare l’amore fra due persone anziane, finisce per ripercorrere tutta la storia di Florentino Ariza e di Fermina Daza, compresi gli “amori” di Florentino e l’amore di Fermina per suo marito, il medico Juvenal Urbino. La grandezza di questo romanzo, a mio parere risiede nella quantità enorme di piccole storie di cui Garcia Marquez infarcisce la trama e nel fatto che in nessun caso (ad eccezione forse della vicenda di América Vicuña) l’autore giudica i propri personaggi. Ma la “follia” della scrittura di Garcia Marquez ed il piacere che provo nel rimanere all’interno di questa follia è qualcosa che a parole non so descrivere.

Commento di Anna:
L’amore ai tempi del colera: bel romanzo, anche ironico, con una storia originale, questo amore che dura una vita. Due cose: la prima è che nell’introduzione alla mia edizione si critica Marquez perchè si allontana dalla denuncia sociale di altre opere ma forse mi viene da dire non era interessato a farlo in questa.I protagonisti sanno che ci sono state e ci sono  delle guerre civili, degli scontri ma non è quello che vivono loro, restano sullo sfondo. La seconda è la descrizione del matrimonio tra Femina e il marito medico. Mi sembra molto bella anche vera, nei gesti quotidiani, nelle piccole ripicche….

Commento di Silvana:
Interessante la lectio di A. Baricco (suggerita da un bandito) sullo stile narrativo di Marquez. Ascoltarla, prima di rileggere il romanzo, è stata utile ad apprezzarne le caratteristiche di racconto orale, la costruzione ed il realismo magico, espediente non sempre molto amato da alcuni, ma che in questa introduzione, trova una logica spiegazione. Come per i grandi classici, il piacere della lettura non è tanto nella trama del racconto – che pure è una storia d’amore bizzarra – ma nella sontuosità barocca della scrittura, nella ricchezza descrittiva di luoghi e personaggi indimenticabili. 
La forza del destino, l’eros, spinge ad un punto che viene presentato fin dall’inizio come l’ineluttabile, il buco nero verso il quale è destinato per attrazione cosmica ed in questo senso è la vita a  prevalere sulla morte.

Commento di Moira:
Questo romanzo è così ricco di dettagli che fare mente locale per ordinarli è difficile. Inizio con lo stile che ho trovato eccelso anche se un po’ pesante, perché Màrquez utilizza pochissimi dialoghi e racconta tantissimi eventi arricchendoli con infiniti (forse troppi) dettagli. Uno stile importante, che non facilita la lettura ma in cui lui è un maestro.
Gli eventi sono così pieni di dettagli che sembra quasi di leggere una lunghissima serie di racconti, ognuno descritto come se fosse un quadro fitto di particolari. Alcune scene sono così vive e nitide che è impossibile non vederle con gli occhi della mente. Per esempio lo stesso inizio, quando il dottor Juvenal Urbino va a casa di Jeremiah de Saint-Armour e trova il suo cadavere o quando cerca di acchiappare il pappagallo e cade.
Il tema della scrittura in questo romanzo meriterebbe un’analisi a sé. Il giovane Florentino conquista Fermina con lettere d’amore e l’anziano Florentino ri-conquista la vedova Fermina Daza con altre lettere che hanno quasi un potere rigenerante e consolante in lei – tanto da farla capitolare.
Florentino scrive lettere d’amore per gli innamorati che gliele commissionano (divertente quando si trova a scriversi e a rispondersi) e aggiunge frasi d’amore o quasi nelle lettere commerciali della compagnia fluviale dello zio presso cui lavora. È più forte di lui! 
È una storia di un amore che dura “53 anni, 7 mesi e 11 giorni, notti comprese”.
Florentino Ariza non s’impegnerà mai davvero con nessuna, vuole restare “libero” per Fermina Daza, perché lui sa che un giorno lei sarà sua. E non importa se quel giorno arriverà 50 anni dopo, quando ormai la pelle è avvizzita, le membra sono stanche, l’udito è quello che è. Fermina non s’innamorerà del ragazzo che è stato Florentino, non del ricordo di gioventù. Amerà il Florentino Ariza anziano, senza capelli e senza più ardore, ma che si emoziona tenendole la mano, e baciandola dolcemente. Un romanzo che affronta con estrema delicatezza l’amore che passa attraverso le fasi della vita e le trasformazioni del corpo.
Ho provato pena per América Vicuña. Troppo piccola/giovane per lui ultrasettantenne, una fine troppo triste per una ragazza nel fiore degli anni. In questo romanzo i personaggi giovani brillano molto meno degli anziani. Lo stesso figlio di Fermina Daza e Juvenal Urbino non brilla di intelligenza, América Vicuña muore suicida, la vedova di Nazaret è vedova giovane. Sono gli anziani ad essere grandiosi in questo romanzo.

Macbeth di William Shakespeare

Commento di Giorgio:
Ho trovato interessante il fatto che la figura che rappresenta l’ambizione sia stata suddivisa fra due personaggi, Macbeth e la Lady. Questa scelta ha reso il dramma più ricco di sfaccettature, potendo attribuire ai due personaggi caratteristiche differenti. Per certi aspetti fa pensare alla tragedia greca in cui la ὕβϱις (hybris) dei due personaggi, che aspirano a qualcosa che va oltre ciò che il destino ha loro riservato, viene punita. Ad entrambi viene riservata inoltre una sorta di pena del contrappasso: Macbeth che ha ucciso Duncan nel sonno non potrà più dormire e Lady Macbeth che si è voluta macchiare le mani di sangue nel suo sonnambulismo continuerà a cercare di pulirsi le mani che continuerà a sentire macchiate. Il riferimento alla tragedia greca può essere visto anche sotto un altro punto di vista: i due personaggi diventano una sorta di archetipo dell’ambizione esagerata, così come i personaggi della tragedia greca sono diventati archetipi di qualche altro sentimento umano.

Commento di Anna:
Immagino che abbiate detto tutto di quest’opera. Per me avrebbe dovuto chiamarsi Lady Macbeth perchè è lei la protagonista, personaggio negativo ma così affascinante… una donna complessa molto moderna…

Commento di Silvana:
È la tragedia più breve della drammaturgia di W. Shakespeare, ma per la profondità del tema  –  le lusinghe del potere e le inevitabili conseguenze  – risulta sempre attuale, capace di provocare  discussioni e considerazioni sulla natura umana. Non a caso è stata ripresa dal cinema da grandi registi come O. Wells, A. Kurosawa nella sua trasposizione “Il trono di sangue”, R. Polanski che ha scelto il ghetto di Varsavia ai tempi dell’invasione tedesca, e nel melodramma, da G. Verdi.
Il senso di colpa suscitato da un’ambizione che non conosce ostacoli morali, tantomeno il tradimento e l’uccisione di innocenti, è al centro della vicenda. Si può resistere alla seduzione delle voci delle streghe?  “Ambizione…frutto più maturo di tutti, quella beatitudine perfetta e unica felicità”
Macbeth cede, ma i colpi al portone, ripetuti ossessivamente, subito dopo l’assassinio, rappresentano il destino che bussa a riscuotere il prezzo ovvero il risveglio della coscienza: “Svegliati, Duncan a questi colpi…Ah, come lo vorrei!” – qualcuno ha paragonato i colpi alle note di apertura della “Nona” di Beethoven- ed il tormento che toglie il sonno “Ho udito una voce gridare: mai più tu dormirai!”.
Macbeth è regicida, ancor più colpevole perché ha sparso sangue consacrato (i re sono unti con Olio Santo per significare il potere trasmesso per volere divino) ed il sacrilegio provoca il Kaos, il disordine, lo smarrimento della ragione, una notte che sembra non finire mai: “A che punto è la notte?” si chiede più volte.*  
Complice fino alla pazzia ed al suicidio è Lady Macbeth che, assieme al marito, costituisce la coppia shakespeariana più riuscita. Essi non sono ingenui, li guida il senso di autoreferenzialità, si sostengono vicendevolmente nell’autoinganno. Le Streghe sussurrano la loro profezia a Macbeth, ma è sua moglie che fa da cassa di risonanza. Alla fine, però Lady Macbeth rivela la sua fragilità umana e cede al rimorso: “Queste mani non saranno più nette?” recita nella sua pazzia, prima di togliersi la vita.
Ultima osservazione: la profezia della discendenza reale del generale Banquo, sembrerebbe non realizzata visto che la tragedia si conclude con la successione legittima di Malcom, figlio di re Duncan. Tuttavia, la casa Stuart cui apparteneva re Giacomo I, vantava discendenza nella leggendaria figura di Banquo. Shakespeare scrive la “tragedia scozzese” nel 1608 in omaggio al sovrano, successore della grande Elisabetta, che era stata protettrice delle arti e del teatro, nella speranza di una continuità.
*Come non ricordare il duo Fruttero-Lucentini, con il giallo “A che punto è la notte?” 1979 ed il commissario Santamaria?

Commento di Grazia:
La grandezza di Shakespeare e delle sue opere è così universalmente riconosciuta che ad ogni tentativo di commento si rischia di cadere nel banale. Certo è che ogni volta che mi cimento nella lettura non riesco a non essere vittima del suo/loro fascino, perché dietro le più o meno complicate storie di amanti, tradimenti o guerre di potere si nascondono ben più profondi temi e l’attualità di ciò che muove i personaggi lascia sempre sorpresi.
Per l’ennesima volta rimango stupita di fronte alla modernità della psicologia di questo personaggio. Macbeth altro non è se non un dramma psicologico: l’uomo Macbeth è vittima della suggestione e manipolazione psicologica che generano in lui l’ambizione che lo porterà alla rovina.
Il potere della suggestione gioca un grosso ruolo e induce Macbeth a cercare di realizzare quei desideri (nuovi o repressi?) che lo porteranno alla malvagità che pervade tutta la tragedia. Malvagità che però non è la pura e cruda inumanità di Iago o Riccardo III, ma è una malvagità perseguitata dal rimorso.
Come è stato possibile che influenze esterne abbiano potuto trasformare il soldato valoroso, coraggioso e leale in un ambizioso tiranno spietato? Forse erano ambizioni inconsce che aspettavano solo un pretesto per manifestarsi.
Riconosco in Macbeth “l’uomo arrivista” di oggi. L’ambizione che caratterizza Macbeth non ha età. È tipica anche dei nostri tempi, in cui vediamo persone usare la violenza e l’inganno per procurarsi potere e successo e diventare paranoiche nel terrore di perderlo.
“Dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”. Bene, questo non sembra essere il nostro caso. Sebbene Lady Macbeth, donna intelligente, scaltra, persuasiva e spietata, più forte, più spietata e più ambiziosa di Macbeth, sia la regista del macabro piano e sebbene Macbeth lo metta in atto, in tutto ciò non c’è nulla di grande se non le loro fragilità, le stesse di oggi.
Un altro aspetto che ho trovato interessante è che a elementi di valenza universale Shakespeare accosta elementi propri della sua epoca, come credere nelle profezie o nell’inalterabilità dell’ordine sociale.
Macbeth dubita, anche se solo per poco, della possibilità che la profezia di diventare re possa avverarsi
Atto 1 scena 3 L.73/74
….and to be King, stands not within the prospect of belief….
….e il titolo di re appare oltre ogni limite del credibile……
Macbeth sa che non potrà diventare re, i re sono nominati da Dio e non possono essere rimossi con la forza.
Ma quando vede che le profezie cominciano ad avverarsi (nomina a Thane of Cawdor) il germe dell’ambizione comincia a tormentarlo. L’ambizione di diventare re era problematica nell’epoca elisabettiana (The Great Chain of Being). Per non parlare del regicidio, atto contro natura che deve essere punito e che porterà Macbeth alla rovina.
Altro momento in cui Macbeth dubita:
Atto 1 scena 3 L.136/137
…..Macbeth è dubbioso, il pensiero dell’omicidio del re:
 “gli fa rizzare i capelli, e battere il cuore contro le costole
“ unfix my hair, and makes my seated hear tknock at my ribs”
ma poi decide che lascerà tutto al fato e al caso:
Come what may!! accada quel che deve accadere (L.148)
Lascia tutto al caso e al destino. Ma davvero, mi chiedo ancora, Macbeth ha agito senza intenzione ma trascinato da elementi sovrannaturali?
Di queste dualità Macbeth ne ha da vendere. Non solo modernità-contemporaneità elisabettiana ma anche oscurità e colore. L’oscurità incombe su questa tragedia. La maggior parte delle scene si svolgono di notte o in qualche recesso buio: la visione del pugnale, l’assassinio di Duncan, l’assassinio di Banquo, le profezie o Lady Macbeth che invoca la densa notte affinché giunga avvolta nel più tetro fumo d’inferno
“come thick night” 1.5.49
“vieni oscura notte”
Spesso però questa oscurità viene interrotta dalla presenza di colori che sebbene luminosi mantengono un’atmosfera tetra incombente: i colori dei lampi, del fuoco sotto il calderone delle streghe ma soprattutto il colore del sangue. L’immagine del sangue ritorna in continuazione ma quella che più colpisce e che ha maggiore significato è il sangue che Macbeth si vede sulla mano, il sangue che lady Macbeth tenta inutilmente di lavarsi di dosso. Il sangue che vedono sia Macbeth che lady Macbeth è il simbolo della loro colpa e cominciano a pensare che il loro crimine li abbia macchiati in un modo indelebile.
What is done is done and cannot be undone
Quel che è fatto è fatto e non può essere disfatto
Trovo che la veridicità di questa affermazione sia disarmante da un lato ma ci fa scoprire il lato debole di una donna che ci è sembrata fino ad ora granitica. La consapevolezza dell’impossibilità, in certi casi, di rimediare alle nostre azioni, di cancellare quello di cui ci si è pentiti e il fatto che non ci sia rimedio al rimorso ci fa simpatizzare con Lady Macbeth.
Sempre a proposito di dualità, Macbeth è anche vittima dell’equivoco, e cos’è l’equivoco se non le due facce della stessa medaglia! Il primo equivoco sono le parole delle streghe che sono da subito enigmatiche, ambigue:
When the battle’s lost and won  (1.1 L.4)
       Quando la battaglia sarà vinta o perduta
Fair is foul and foul is fair      (1.1 L.10)
      Brutto è il bello, bello è il brutto
Lesser than Macbeth, and greater! (1.3 L.65)
     Meno grande di Macbeth e più grande
Not so happy, yet much  happier. (1.3 L.66)
       Non così felice, eppure più felice
Le tre profezie Act IV.1 L.68/125
Beware Macduff
– None of a woman born, shall harm Macbeth 
– You’ll be safe util Birnam wood moves towards Dunsinane castle
Le parole delle streghe sono estremamente disorientanti, lasciano Macbeth nella indecisione, nell’incertezza e gli permettono di credere quello che a lui fa più comodo.
Mi sorprende quanto Shakespeare abbia ancora una volta centrato il segno e scoperto le debolezze umane dei suoi contemporanei ma anche delle generazioni successive. Insomma, non c’è nulla in cui non ci si possa riconoscere.
Voglio concludere con uno dei momenti, a mio avviso, più alti, uno dei passaggi più significativi e profondi. (atto 5 scena V L.9/28) Dopo aver sentito delle grida di donne, Macbeth chiede a Seyton, un ufficiale, cosa sia successo. In un primo momento Macbeth si immerge in un breve monologo in cui ammette e riflette sul fatto che “ha dimenticato il sapore della paura”. È consapevole del suo cambiamento e lo comunica al pubblico, ha visto e causato così tanto orrore, che ora tutto lo lascia indifferente. Poi Seyton rientra e comunica che la regina è morta:
“The Queen, my Lord, is dead!”
Macbeth sembra che sia incapace di reagire normalmente ma, sebbene scioccato, parla freddamente del passare del tempo e dell’inutilità della vita dichiarando che

She should have died hereafter;
There would have been a time for such a word.
To-morrow, and to-morrow, and to-morrow,
Creeps in this petty pace from day to day
To the last syllable of recorded time,
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a taleTold by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.

Sarebbe morta prima o poi.
Sarebbe venuto il momento per quella parola…
Domani, e domani, e domani,
striscia così, col suo misero passo, di giorno
in giorno, fino alla zeta del tempo scritto;
e tutti i nostri ieri han rischiarato
ad altri pazzi
la strada della polverosa morte.
Spegniti, spegniti breve candela!
La vita non è che un’ombra vagante, un povero attore
che avanza tronfio e smania la sua ora
sul palco, e poi non se ne sa più nulla.
È un racconto fatto da un idiota,
pieno di grida e furia,
che non significa niente.

In questo monologo Macbeth si rivolge ancora al pubblico ed esterna i suoi pensieri.
Il tono è indifferente, disincantato, cinico, rassegnato. Le sue parole riflettono le sue considerazioni sul passare del tempo e sull’inutilità della vita alla quale fa riferimento utilizzando alcune metafore: brief candle – walking shadow – an actor playing a part – a tale.
Tutte cose che hanno una breve durata, non hanno sostanza, non sono quello che sembrano:
– La candela non è luce
– L’ombra non è sostanza
– L’attore non è il personaggio
– Il racconto è finzione
– Macbeth stesso non è altro che un racconto raccontato da attori
Concludo dicendo che per me è sempre un piacere vedere rappresentate le opere di Shakespeare e riflettere sui loro molteplici e più o meno espliciti significati ma credo che il piacere più intenso si raggiunga leggendo i suoi versi, perché la maestria con cui usa la parola per raccontarci le sue storie, il ritmo sempre incalzante con cui evoca le emozioni più diverse fa di lui il migliore di sempre.


Incontro del 23 settembre 2021

La Banda del Book si è riunita il 23 settembre 2021 (finalmente alla Biblioteca Crescenzago!!!!!) per commentare La vita felice di Elena Varvello e Quando Teresa si arrabbiò con Dio di Alejandro Jodorowsky. La discussione de La leonessa bianca di Henning Mankell viene rinviata al prossimo incontro.
Anche in questa occasione abbiamo optato per l’invio del contributo via email e quel che segue è il report condiviso.

La vita felice di Elena Varvello

Commento del BanditoBirra:
Non so ancora dire se il romanzo mi sia piaciuto o meno. Di certo non mi ha lasciato indifferente, ma non sono in grado di sbilanciarmi per il sì o per il no. Il finale mi ha spiazzato: mi è sembrato un po’ un happy end un po’ in contraddizione con il resto del libro e sinceramente io non l’avrei proprio inserito.
Dal punto di vista tecnico è emersa la capacità dell’autrice di alternare piani e racconti differenti in poche righe. Leggendo alcuni giallisti (es. Carlo Lucarelli) si arriva alla fine del capitolo con una situazione che si vorrebbe subito ripresa nel capitolo successivo, mentre l’autore sposta il racconto su tutt’altro per alimentare l’attesa nel lettore. In questo romanzo questo avviene in poche righe: un paragrafo, magari di dieci righe, che racconta una cosa e poi un altro paragrafo che racconta altro. E poi si ritorna al primo racconto. Questa tecnica ha permesso all’autrice di far crescere continuamente la tensione all’interno della narrazione.

Commento della BanditaTeacher:
Ciò che a mio parere colpisce maggiormente è lo stile estremamente ricercato, asciutto, prevalentemente nominale con un uso della paratassi, sicuramente funzionale al racconto, perché ne segna il ritmo incalzante e spinge ad avanti, ma a volte eccessivo.  Numerosissimi anche gli accorgimenti retorici, quali le allitterazioni e, in quello che sembra essere un puro esercizio di stile, a un certo punto si intravvede anche quello che potrebbe essere quasi un tautogramma.

“Scendi lungo il vialetto, sali i gradini fino a raggiungere la porta – l’hanno lasciata aperta, ti stavano aspettando. Ti fermi sulla soglia, vuoi toglierti le scarpe: in quell’istante senti dei passi e poi vedi te stesso spuntare dal corridoio, tranquillo e sorridente.”

la vita felice

Sono rimasta ammirata e sbalordita di fronte a tanta maestria stilistica fino al punto che mi sono sentita talmente prigioniera dell’aspetto formale da perdere talvolta il filo del racconto (unico ostacolo a una lettura che per il resto è stata molto scorrevole e avvincente).
Racconto più che apprezzabile, pur nella sua cupezza e tristezza; cupezza, tristezza e inquietudine che caratterizzano non solo l’atmosfera in generale ma anche tutti i personaggi: da Elia, che si trova coinvolto in un amore adolescenziale per una donna che tutto è tranne che adolescente, Elia che è attratto da nuove amicizie ma soprattutto torturato dal dubbio, che per lui diventa quasi una certezza, delle atrocità che potrebbe aver commesso suo padre. Un padre che a causa della perdita del lavoro, compromette l’equilibrio, forse già precario, della sua famiglia. Un padre che vorrebbe ma non riesce più a esserlo e men che meno riesce ad essere un marito. A tratti ci prova ancora, a essere padre e marito, ma fallisce sempre. Le certezze di Elia invece cozzano con l’incapacità o la non volontà della madre, che si rifiuta di vedere l’evidenza. Insomma, al centro del romanzo, una famiglia disfunzionale come ce ne sono tante ed è proprio questo che lo rende vero, cosa che diventa un suo punto di forza.
Infine, molto ben architettata e quindi interessante, è la costruzione narrativa su due piani temporali diversi: quello che successe in una notte d’estate, il peggio, che sarebbe potuto accadere e che di fatto e fortunatamente non si era verificato e che fa aumentare il nostro senso di pena per Ettore, il padre, e quello che era successo a Elia in quella lontana estate. È questo che vuole essere raccontato ed è questo che rende giustizia a un finale che non c’è e del quale, a mio avviso, non si sente la mancanza.

Commento della Bandita golosa di patatine:
Ho trovato i personaggi ben descritti. Sappiamo molto di quello che provano per la maggior parte del tempo. Li vediamo mentre vivono la propria vita: la madre con la figlia diversamente abile, la ragazza che viene rapita (che passa dal sollievo di aver trovato un passaggio alla disperazione di essere in balìa di un pazzo), Stefano che aspetta invano suo padre per tornare a vivere in città, Anna la madre di Stefano che ha un rapporto con Elia… e poi c’è lei: Marta, la madre di Elia e moglie di Ettore.
Tra tutti i personaggi, sono rimasta colpita da Marta. Una donna che ama suo marito di un amore sincero, che si rende conto del suo comportamento inspiegabile e cerca in ogni modo di assecondarlo, aiutarlo, giustificarlo. Non l’ho trovata inverosimile perché ogni persona reagisce alla vita a modo proprio. C’è chi si arrabbia, strilla, sbatte le cose e magari se ne va lasciando marito e figlio, o se ne va con il figlio lasciando lì il marito.
E poi ci sono le Marta.
Per Wonder esistono Il libro di Julian, Il libro di Charlotte, etc. che raccontano la stessa storia dal punto di vista degli altri personaggi. Ecco, io vorrei Il libro di Marta.

Perché questo titolo? È Anna a dire a Elia:

Mi prese la mano sinistra e la girò, il palmo verso l’alto.
– Te lo ricordi quello che ti ho detto?
Che avrai una vita lunga? E guarda, sarai felice.

la vita felice

Commento della BanditaRossa:
È un romanzo che mi ha colpita molto, infatti dopo averlo letto l’ho regalato come amo fare con i libri che mi piacciono.
Alcuni banditi hanno rilevato che la scrittura è molti scarna, fatta di frasi estremamente brevi, secche. In un’intervista l’autrice ha detto che questa è una sua scelta stilistica: il suo lavoro durante la stesura di un libro è proprio quello di “asciugare” il più possibile il suo linguaggio.

Probabilmente dalla mia prima raccolta di racconti a quest’ultimo romanzo, passando per La luce perfetta del giorno, sto mettendo a fuoco un mio personalissimo principio: il tentativo di ridurre tutto all’osso, arrivare al massimo possibile di semplicità, che dal mio punto di vista corrisponde al massimo possibile di complessità.

(Intervista Riducendo tutto all’osso – “La vita felice” e la poetica dell’essenziale di Elena Varvello di Virginia Giustetto / 12 settembre 2016) http://www.flaneri.com/2016/09/12/riducendo-tutto-allosso/

Questo le permette di arrivare direttamente al lettore con frasi brevi e sferzanti, che colpiscono.
Leggendo La vita felice sembra di entrare nei panni di Elia, si sente il suo smarrimento tra questo padre chiuso, misterioso, e la madre, che cerca sempre di apparire positiva ma che soffre di nascosto. Come Elia si cammina tra quei boschi, si sente il caldo di quell’estate. È un libro profondo, che lascia un segno.

Commento della Bandita golosa di cioccolato:
Anche io sono stata conquistata da La vita felice. Ho trovato molto convincente l’atmosfera e l’ambientazione, resa ancora più intrigante dalla scrittura secca e precisa, piena di sospensioni, anche grazie all’alternarsi dei capitoli che rendono la struttura molto cinematografica. Mi ha colpito il fatto che è una storia tutta italiana, ma avrebbe potuto benissimo svolgersi in qualsiasi comunità montana della provincia americana. Mentre leggevo mi venivano in mente immagini precise, proprio come in un film. Interessante anche la tecnica narrativa e il diverso uso del tempo verbale per differenziare i capitoli in cui Elia vive in prima persona e quindi è testimone di quello che vede, sente, ricorda e i capitoli in cui lui immagina ciò che potrebbe essere avvenuto al padre o alla ragazza.
È un romanzo che sa agganciare e tenere alta la tensione, proprio come un thriller. In effetti noi sappiamo già dalle prime righe cosa succederà. Elia lo dichiara subito. Sappiamo che allora qualcosa, anzi “tutto” si è spezzato. Quello che non sappiamo è il come.
È un romanzo sull’amore, nonostante tutto.
È un romanzo sulla colpa, o se vogliamo, sull’attesa della colpa. La bellezza del romanzo e la bravura di Varvello sta nel fatto che chi legge vive tutto questo come se non sapesse cosa sta per succedere, né chi è la vittima o il colpevole.

Commento di una Bandita Assente:
Leggo La vita felice tutto d’un fiato e mi lascio trascinare dalla storia di Elia Furenti, un ragazzo timido e insicuro che viene travolto da eventi misteriosi e dolorosi, ma soprattutto si trova dinanzi a comportamenti adulti che non riesce a comprendere. Da un lato il padre che dopo aver perso il lavoro inizia a comportarsi in modo inspiegabile e a tratti preoccupante, dall’altro lato l’altrettanto inspiegabile atteggiamento della madre che tende a nascondere, giustificare e negare comportamenti patologici e francamente problematici del marito.
Ma nonostante questo Elia vive la sua adolescenza confrontandosi con l’altro, con modelli diversi da quelli genitoriali, e quindi scopre l’attrazione e la sessualità che, se da un lato gli permette di rivitalizzarsi, dall’altro porta ad essere rifiutato e a dover rinunciare all’amicizia con Stefano, ragazzo anch’egli proveniente da una famiglia problematica.
Elena Varvello sembra quasi aver scritto un romanzo di formazione che descrive la fatica di un adolescente di crescere in un contesto povero, poco stimolante, con adulti poco equipaggiati sul piano di risorse di contenimento e di supporto. Non è facile destreggiarsi tra silenzi, non detti, misteri e incapacità di riconoscere la realtà e dare un nome alle cose. Eppure, nonostante tutto, Elia Furenti riesce a mettersi in salvo in qualche modo, allontanandosi da Ponte, nel tentativo di costruirsi una propria identità; ma per quanto si scappi e ovunque si vada, si finisce per ritrovarsi a confrontarsi e a fare i conti con le tracce del proprio passato che non riescono mai dissolversi del tutto. 

Quando Teresa si arrabbiò con dio di Alejandro Jodorowsky

Commento della BanditaTeacher:
Nonostante le premesse e le intuizioni che avevo avuto inizialmente, che mi avevano fatto pensare che avrei divorato il libro, ho mollato questa lettura intorno a pagina 100.
Quali erano le (stimolanti) premesse?
– Un incipit da brivido! La rabbia di Teresa è una rabbia vera, descritta in modo magistrale. Una rabbia che è naturale capire, una rabbia che non è difficile condividere, nella quale è facile riconoscersi.  Il grido di Teresa per la perdita del figlio è un’invettiva contro Dio che, forse, anche il più fedele dei credenti può giustificare.
– Si capisce da subito che il romanzo è impregnato dell’interessante (almeno per me) storia del popolo ebraico, del suo essere perseguitato, cacciato da ogni dove, del suo errare per il mondo alla ricerca di una terra, del disprezzo, delle accuse e dei torti che ha dovuto subire portandolo, spesso, a dover esercitare professioni comunemente rifiutate (collettori di imposte/usurai) e a vivere reclusi ai margini della società.
La narrazione fa intravedere il popolare umorismo ebraico in cui il tragico diventa veicolo di comicità.
Perché l’ho interrotto?
L’ho interrotto perché la narrazione si è fatta sempre più surreale (cosa che non amo in generale), corredata da episodi, mi si conceda il termine, “demenziali”, in cui i personaggi più che parlare e agire spesso “delirano e annaspano” e si trovano in situazioni al di là del credibile.
Forse avrei dovuto, e questo l’ho capito dal confronto con altri lettori che invece hanno apprezzato il romanzo, filtrare tutto ciò che per me ha reso la lettura difficile e cogliere quello che invece di interessante emergeva.
Non escludo di riprenderlo.

Commento della BanditaRossa:
Nonostante lo abbia proposto avendolo letto tanti anni fa non sono riuscita né a concluderlo né a capire perché ne conservassi un buon ricordo. È una lettura estremamente faticosa, ridondante, esagerata sotto tutti i punti di vista. La vicenda familiare sarebbe anche interessante, ma per riuscire a seguirla bisogna affrontare un lavoro di scrematura estremamente impegnativo.
Jodorowsky ha voluto effettivamente raccontare la storia della sua famiglia, ma l’ha condita con una tale dose di magia, di trovate rocambolesche e di personaggi inverosimili che si fa una fatica immane a seguirla. Non so se prevarrà la voglia di proseguire o il desiderio di una lettura più agevole.

Nell’incontro di ottobre parleremo di:
1) La leonessa bianca di Henning Mankell
2) Macbeth di William Shakespeare
3) L’amore ai tempi del colera di Gabriel García Márquez

Canne al vento di Grazia Deledda è rimandato a gennaio 2022.

Tre cattivi

Alfred Hitchcock diceva “Più riuscito è il cattivo, più riuscito sarà il film”. Considerazione analoga si può fare per l’opera lirica. Se il cattivo è veramente tale, mette gli altri personaggi in una situazione estrema e da qui può nascere la bellezza dell’opera.
Il Conte di Luna nel Trovatore odia mortalmente Manrico (non sa ancora che in realtà è suo fratello), vuole per sé Leonora, la quale ama riamata Manrico e arriva a proporre a Leonora di liberare Manrico se lei accetterà di sposarlo (il Conte di Luna). Leonora accetta in modo da liberare Manrico, ma si avvelena perché vuole mantenersi a lui fedele.
Nell’Otello di Verdi Iago è un personaggio quasi satanico, molto più malvagio dell’omonimo personaggio di Shakespeare, che per vendicarsi di una mancata promozione mette in cattiva luce Cassio e Desdemona portando all’omicidio di lei da parte di Otello che, quando si renderà conto del suo errore, si ucciderà.
Scarpia è forse il peggiore di tutti. Fa torturare Cavaradossi in modo che Tosca possa ascoltare le sue sofferenze. Vuole possedere Tosca e il fatto che Tosca lo odi lo eccita ancor di più (“Quel tuo pianto era lava ai sensi miei e il tuo sguardo che odio in me dardeggiava, mie brame inferociva!…”).
Potete vedere e ascoltare Leo Nucci che interpreta Iago (“Credo in un dio crudel…”) al seguente url: https://youtu.be/eeKRm95kH4Y

Tra le mani di una donna

Ho visto un mio libro tra le mani di una donna.
Era seduta in un vagone della metropolitana, le sue dita stringevano le pagine per tenerle ferme, le voltavano delicatamente.

Ho saputo che i libri hanno una sorte migliore di quella che spetta a chi li scrive. Eccoli tenuti in braccio, portati in viaggio, su un’isola del Sud o in una tenda in montagna, fissati con intensità da un paio di occhi che farebbero subito abbassare i miei.
I libri se la passano meglio di chi li fa.

Benedico la sorte di scrivere racconti e non cronache per giornali, perché a fianco della donna c’era un uomo con un quotidiano. Lo girava a colpi bruschi, lo leggeva scontento, poi l’ha ripiegato e l’ha ficcato in tasca. Prima di sera l’avrà spedito in un cestino, al macero.

Fortuna invece le mie pagine in braccio a una donna seduta.
Ho avuto voglia di scriverne subito una per aggiungerla in fondo al suo libro. Non sono più mie le parole che ho scritto, sono diventate sue. Le ha volute, pescando proprio quelle nel gran bazar dei libri… E ora stanno là: sopra le sue ginocchia, sfiorate con un tocco di carezza, coi capelli che scendono a sipario.

Prese e tenute così,
quelle pagine sono più sue adesso
di quanto siano state mie prima.

Erri De Luca –  Il più e il meno

Verismo e Opera lirica

So che più d’uno non sarà d’accordo, ma qui lo dico e non lo nego: per me l’Opera Lirica non può essere verista. L’opera è tutto meno che verosimile: la gente muore cantando, la cantante che interpreta la figlia ha 4 anni in più di quella che interpreta la madre, donne di 120 chili che muoiono di tisi … L’opera raggiunge il vero, il profondo, ma per fare questo deve utilizzare mezzi e strumenti che sono tutt’altro che realistici. Molto spesso i libretti raccontano trame abbastanza strampalate. Pensiamo a tutti i travestimenti a cui i personaggi d’opera abboccano. Rendono l’opera meno bella ? Possibile che due personaggi come la Contessa e Susanna (“Le nozze di Figaro”) possano semplicemente scambiarsi abiti e parrucche per stanare il Conte di Almaviva e che questo ci caschi ? Nondimeno, esiste un’opera che racconti il desiderio meglio di questa ? Il libretto de “L’italiana in Algeri” è basato su una serie di coincidenze veramente poco credibili, ma il personaggio di Isabella rimane uno dei primi e migliori esempi di una donna forte, libera e sensuale che sa districarsi in un mondo maschile senza lasciarsi intimorire. Proprio da “L’Italiana in Algeri” potete vedere ed ascoltare la grande Marilyn Horne in “Già so per pratica qual sia l’effetto… Tutti la chiedono, tutti la bramano …” al seguente url: https://youtu.be/5yLcb4bWEBg